A Berlino ci sono teatri come il Maxim Gorki che dopo il 7 Ottobre cancella lo spettacolo «The Situation» con autori israeliani e palestinesi e organismi statali come il l’Agenzia federale per l’educazione civica che sottraggono sostegni e fondi a poche settimane dall’inizio di un evento come accaduto per «We still need to talk», conferenze sulla memoria dell’Olocausto e sulle riparazioni storiche del colonialismo. Entrambe con la motivazione che non è il momento giusto per approfondire questi temi. Come a Berlino così ad Amsterdam il silenzio delle istituzioni che arricchiscono il loro programma con risignificazioni e percorsi decoloniali è sempre più assordante.

Le conseguenze dei silenzi e di assurdi e spregiudicati equilibri di equidistanza con la narrativa di stato, allineata con il governo di Israele, stanno creando rotture e falde con artisti, filmmakers e lavoratori della cultura che sarà difficile risanare. C’è una quasi netta divisione in base all’etnia e al tipo di ruolo professionale tra chi tace e chi organizza solidarietà e dissenso. Artisti nella maggioranza occidentali che ricoprono cariche e ruoli, foss’anche essere professore in un’università o programmatore in un festival, tacciono. Mentre altri che spesso provengono dal cosiddetto Sud globale, e/o lavorano a contratto o in precarietà, dissentono e reagiscono a quella che sta diventando una repressione culturale insostenibile.

Quanto sta accadendo all’Idfa ad Amsterdam è un’ulteriore conferma dell’approccio alla decolonizzazione di tante istituzioni europee. L’Idfa di fronte ad una solidale e pacifica protesta ne prende le distanze per censurare e colpevolizzare chi esprime sostegno al popolo palestinese, anche avendo ospitato per 6 anni la piattaforma di produzione Palestine Film Institute. Le istituzioni culturali non trascendono il loro ruolo egemone oltre le rassicuranti bolle dell’anticolonialità performativa.