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Gli effetti del dietrofront: il «reddito» perde 900 milioni, «Quota 100» a meno 2 miliardi

Gli effetti del dietrofront: il «reddito» perde 900 milioni, «Quota 100» a meno 2 miliardi

Legge di bilancio Il taglio sul sussidio di povertà è spiegato come un affinamento statistico della platea di 5 milioni di potenziali beneficiari. Quello sulle pensioni è il risultato delle «finestre». Il «reddito di cittadinanza» vincolato alla scelta dei beneficiari. E se lo rifiutassero in più di 10 su 100?

Pubblicato quasi 6 anni faEdizione del 14 dicembre 2018

Sempre che l’accordo con Bruxelles vada in porto entro domenica, allo stato attuale si può dire che i saldi della manovra non resteranno invariati e che l’impatto sulle pensioni «quota 100» e sul sussidio di povertà impropriamente detto «reddito di cittadinanza» ci sarà. Il dietrofront sulla «manovra del popolo» per evitare la procedura di infrazione da parte della Commissione Ue comporterà un taglio stimato di 3,6 miliardi sulle misure bandiera di Lega e Cinque Stelle. Il fondo che stanzia le risorse per le due misure è contenuto nel testo della manovra e sarà modificato a partire da martedì 18 in aula al Senato, rischiando così di commissariare la commissione Bilancio limitandone l’attività al vaglio formale del testo uscito dalla Camera.

NEL GIOCO A MOSCA cieca della legge di bilancio fonti di governo hanno fatto trapelare che il sussidio di povertà (e incentivo alle imprese) perderà tra gli 800 e i 900 milioni di euro rispetto a una dotazione iniziale di 9 miliardi, di cui uno destinato a una trasformazione epocale dei centri per l’impiego che dovrebbe avvenire (non avverrà) entro marzo 2019. La perdita del 9-10% delle risorse inizialmente destinate al «reddito» è stata presentata come una «limatura» o «aggiustamento tecnico-statistico» intervenuto in maniera indipendente rispetto alla trattativa a cui il presidente del consiglio Conte ha affidato il suo personale rilancio politico.

Sarebbe, la «limatura», l’esito solo di un’analisi più accurata, evidentemente non ancora effettuata fino a questo momento, sulla platea potenziale dei beneficiari. Non dunque la conseguenza del dietrofront di chi il 27 settembre scorso celebrava il deficit al 2,4% (ora sarebbe al 2,04%, galeotto fu lo zero in mezzo) come l’«abolizione della povertà» dal balcone di Palazzo Chigi. Se fosse verosimile la prima ipotesi, sarebbe un’altra testimonianza dell’improvvisazione con cui sta procedendo il governo nel tentativo di razionalizzare una politica neoliberale di governo della forza lavoro, per di più intesa come sostegno alle imprese che recepiranno fino a cinque mesi di sussidio in cambio dell’assunzione dei beneficiari uomini. Saranno sei mesi nel caso delle donne.

RESTANDO, per il momento solo agli annunci la platea resterà invariata e il «reddito» andrà a oltre 5 milioni di «italiani» aventi diritto. Al momento non si cita il caso dei poveri assoluti stranieri, che sono un terzo della platea, almeno secondo i dati Istat. Siamo ancora fermi all’annuncio che, tra questi, beneficeranno della misura solo coloro che risiedono nel nostro paese da oltre 5 anni. Tutti gli altri, no. Dato che i «poveri assoluti» sono poco più di 5 milioni, e che gli stranieri sono all’incirca 1,5 milioni, e solo una parte dovrebbe rientrare nella platea, è allora possibile che si stia discutendo di una misura diversa dalla politica attiva del lavoro: la «pensione di cittadinanza», ovvero l’aumento degli assegni minimi fino a 780 euro mensili. L’incertezza è tale che nemmeno questo dato è chiaro.

ANDIAMO PIÙ A FONDO alle spiegazioni fatte trapelare ieri, l’intero progetto sembra dipendere da una variabile non ancora considerata: la soggettività dei «poveri». L’«aggiustamento statistico» del 10% rispetto alla platea dipende anche dalla loro volontà di presentare una domanda, entrando così a fare parte di un girone potenzialmente infernale. Il ragionamento è: «Se sono 100 ad averne diritto, non significa che siano poi effettivamente tutti e 100 a fare concretamente la domanda». E se fossero di più quelli che vogliono sottrarsi ai controlli del paternalismo di stato e alle minacce di sei anni di galera se sorpresi a lavorare «in nero»? Tale comportamento sarà inteso come un «effetto di attrito» statistico e condannato come la prova che i «fannulloni» restano sul «divano». Potrebbe essere invece il segno di una resistenza, muta e rischiosa, a chi formalmente vuole fare il «bene» del popolo e materialmente lo spinge ad accettare un lavoro qualunque sia.

LE NORME CHE stabiliranno il funzionamento del reddito, e della «quota 100» saranno approvate in due decreti ad hoc dal consiglio dei ministri tra Natale e Capodanno. Con ogni probabilità saranno in seguito necessari passaggi parlamentari, e ulteriori norme attuative, per entrambi i capitoli. Per il sottosegretario al Lavoro Claudio Durigon su «quota 100» «non ci saranno risparmi: abbiamo già dato». Tali risparmi saranno di circa 2 miliardi ottenuti dal gioco delle finestre e delle percentuali di adesione, o dall’impossibilità di cumulo con uno stipendio oltre 5 mila euro. Da gennaio chi avrà maturato i requisiti, potrà andare in pensione con la finestra del primo luglio, in attesa del turn over nella pubblica amministrazione. Sono annunciati altri vertici. La strada verso martedì è lunga.

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