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Gli abitanti invisibili cercano casa

Gli abitanti invisibili cercano casa

Diritti «Abitare: restare, resistere, andare» è il tema del ciclo di incontri organizzati a Roma dal Circolo Gianni Bosio, con l’Archivio Memorie Migranti e l’Associazione Italiana di Storia Orale

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 3 dicembre 2022

Faceva freddo la sera di marzo 1969, quando i senza casa cacciati dalle case occupate arrivarono sulla piazza del Campidoglio e la occuparono cinque giorni e notti. Per scaldarsi, presero tamburelli e armoniche e si misero a ballare attorno alla statua di Marco Aurelio. Tommaso D’Agostino, calabrese, residente in baracca al Borghetto Prenestino, improvvisò dei versi: «sono cinque notti che sto sotto ‘sto cavallo, soltanto me ne vado se m’arresta il maresciallo…». Rivendicava il diritto di abitare, occupando le case; il diritto di resistere, occupando la piazza; e aveva esercitato il diritto di migrare, dalla Calabria a Roma.

«ABITARE: RESTARE, resistere, andare» è il tema del ciclo di incontri organizzati dal Circolo Gianni Bosio, con l’Archivio Memorie Migranti e l’Associazione Italiana di Storia Orale, che si è aperto il 30 novembre alla Casa della memoria e della Storia di Roma, proprio con l’ascolto della storica «tarantella dei baraccati». Da dicembre a maggio, con i ricercatori di Bosio, AMM e AISO e con i contributi di Anna Foa, Luigi Ferrajoli, Fabrizio Barca e altri, si parlerà del diritto a usare lo spazio – il pianeta, la città, la casa: la città, le lotte per la casa, le forme del ghetto, la costituzione per la terra, le aree interne, le migrazioni, la scuola.

I VERSI DI TOMMASO D’Agostino erano improvvisati ma avevano una storia. In un’altra occasione, lui stesso ricordò un canto di pellegrinaggio: «io non mi movo di ccà / se Maria la grazia non fa». I senza casa occupano il Campidoglio come i devoti occupano il santuario per rivendicare una grazia a cui sentono di avere diritto, e trovano nella memoria del rito contadino le parole per lottare nella città. L’intreccio fra rito e resistenza attraversa tutto il progetto: così la relazione di apertura di Omerita Ranalli era imperniata su un emozionante video dei pellegrini che, lasciando il santuario di San Domenico a Cocullo per tornare a casa, invocano piangendo dal santo la sicurezza del ritorno.

TORNAVANO IN TRENO a Genova, nel primo anniversario dell’assassinio di Carlo Giuliani, i ragazzi ricordati dall’intervento di Ilaria Bracaglia: «partenza, ritorno, restare, perdere chi se ne va, declinati in forma laica ma non tanto diversa. Lo spazio di piazza Alimonda si caratterizza per un desiderio di abitabilità diverso, caratterizzato da una ritualità fatta di suoni, di danze, di musica, di pratiche ripetuti di anno in anno dai tanti che, come i pellegrini, ogni anno ritornano a Genova, vanno a Genova, e salutano Genova, anche lì con le lacrime agli occhi».

PERDERE CHI SE NE VA, diceva Bracaglia, rifacendosi al secondo ascolto d’archivio: «Mamma mia dammi cento lire» – una canzone di emigrazione (e di conflitto generazionale) sul diritto di andare («mamma mia dammi cento lire, che in America voglio andar»), e una canzone sulla perdita che la partenza infligge a chi resta («cento lire te le do, ma in America no, no, no»).

OGGI, CI LEGGIAMO altri significati: le cento lire, risorse familiari messe da chi resta a disposizione di chi parte; nelle ultime e spesso dimenticate strofe, la nave che affonda e il corpo disfatto in mare come nella tomba d’acqua che è diventato il Mediterraneo. La tensione fa partenza e ritorno, il desiderio di ricongiungersi con chi è partito, come a sanare la ferita della separazione, «si sentiva sempre nei vicoli e nelle case del mio paese in Calabria», ha ricordato Enrico Pugliese: «L’emigrazione della prima generazione è sempre legata all’idea di ritorno; Si parte con l’idea di tornare, quindi è bene mettersi d’accordo col Santo o la Madonna, che ti garantisca anche il ritorno. Ma questo a volte si realizza, a volte no, e chi non può o non sceglie di tornare a casa porta la casa con sé, o cerca di farsi casa nel contesto nuovo».

DELLA DIFFICOLTÀ DI FARSI casa nel luogo di arrivo parlava il terzo ascolto: Geedi Yuusuf, un giovane immigrato somalo registrato alla scuola di italiano Asinitas. Da quando sono in Italia, spiega Geedi, ho imparato tre parole: «ospite, permesso di soggiorno, titolo di viaggio». E ci spiega il significato delle nostre stesse parole: «Soggiorno: permesso di stare per dei giorni», quindi non di restare, di abitare, ma solo di continuare a muoversi «ospite»: l’Italia non sarà mai casa sua, sarà sempre straniero in casa d’altri. «Queste tre cose, la parola straniero, il permesso di soggiorno, il titolo di viaggio mi hanno fatto capire che io non ho una legge che mi renda legale qui, ma sono soltanto un ospite. Posso stare solo per dei giorni, quindi sono un ospite».

«ERANO 535», scrive un giornale, «i migranti ospitati [corsivo nostro!) nel Cara («Centro di accoglienza per richiedenti asilo») di Castelnuovo di Porto, a Roma. Da lì, racconta Sandro Triulzi, venivano gli allievi di Asinitas: «Ci volevano due ore di autobus. E spesso l’autista, quando vedeva un gruppo di neri, non si fermava alla fermata». Eppure, il movimento degli esseri umani nello spazio del pianeta non è un’emergenza italiana da «invasione» (L’Italia è ancora il quinto paese del mondo per numero di emigrati, ricorda Pugliese, e i numeri di chi va via e chi arriva sono quasi uguali), ma appartiene alla storia globale.

IN AFRICA, RICORDA TRIULZI; «un tempo partire era parte del diventare adulti, perché ancora era possibile andare e poi tornare e ripartire. Nei villaggi, la categoria di chi è stato fuori, conosce il mondo, era una categoria positiva. Ma poi è diventato non più rito di passaggio, ma un ciclo di violenza che continua dopo l’arrivo. Pochi di quelli che sono arrivati hanno potuto avere una casa. Penso a Primo Levi: ‘voi nelle vostre tiepide case’, quando vedete un uomo, una donna cui succede questo, che pensate? Che fate?».

IL LABBOSIO E IL CORO multietnico Romolo Balzani hanno chiuso il cerchio coi versi di una canzone: «La casa è di chi l’abita, la terra è di chi la lavora, è un vile chi l’ignora». Di questo parliamo: mettere fine all’ignoranza su chi vive invisibile nel nostro pianeta, nelle nostre città, senza il diritto di abitarci.

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