Nel Super Martedì che oggettivamente è appartenuto in gran parte a Joe Biden, alla fine la Left Coast ha tenuto, la roccaforte progressista, giovane e ispanica della California, come da pronostico, è rimasta con Bernie. Frutto dell’organizzazione capillare e dell’immane lavoro organizzativo messo in campo dalla campagna che da mesi opera qui con 23 uffici distrettuali e una rete di attivisti di base in università, sindacati e sul territorio. La California è fra gli stati più giovani e quello più “etnico” e la forza di Sanders è radicata fra i giovani e, in maniera fondamentale qui, fra gli Ispanici.

L’ELETTORATO LATINX rappresenta in California la pluralità della popolazione: 40% contro il 38% di bianchi. Di questi il 55% hanno votato Bernie, un dato notevole considerando anche che quattro anni fa la comunità aveva favorito la rivale Hillary Clinton. La campagna Sanders si è però prefissa di risalire la china e lo ha fatto con efficacia; oggi nei barrios di East Los Angeles, nei sobborghi di El Monte, nella Mission di San Francisco e nei precinti dei sindacati a forte maggioranza ispanica Sanders è noto come Tio Bernie ed è stato favorito anche dalla grande affluenza. Quest’ultima fotografa anche l’ansia che serpeggia in una popolazione diventata obbiettivo primario della campagna xenofobica di Trump usata per mantenere vivo il rancore della propria base. È quella che si articola nel gulag di prigionia lungo la frontiera, dove alle famiglie di profughi vengono sottratti e desaparecidos i figli, nelle hieleras, celle frigorifere in cui vengono richiusi i clandestini arrestati (ad oggi i decessi registrati negli ultimi tre anni sono 34) e nelle retate nei quartieri e sui posti di lavoro (solo a Los Angeles gli ispanici senza documenti si avvicinano al milione).

Trump inneggia al muro sul confine per mandare in visibilio la sua platea e affida al suo «ministro dell’odio» Stephen Miller le manovre eugenetiche per invertire la macrotendenza che vede, con l’aumento demografico degli ispanici, il partito repubblicano rischiare la minoranza permanente.

LA GUERRA AGLI ISPANICI che include la revoca dell’amnistia al milione e rotti di studenti senza permesso di soggiorno (i dreamers) è il contenzioso principale fra la Casa bianca trumpista e gli stati “urbani” e liberal, prima fra tutte la California Republic. Un paio di settimane prima del voto Trump aveva annunciato l’invio di unità speciali (reparti solitamente impiegati in operazioni anti criminalità organizzata) per coadiuvare la rimozione di immigrati clandestini nelle «città santuario» che si sono rifiutate di collaborare con le retate ordinate dall’amministrazione Trump.

«C’è grande ansietà nelle minoranze» ha spiegato Chuck Rocha che coordina la campagna Bernie fra gli ispanici. «Il senso di essere i capri espiatori del presidente. Trump sta motivando un sacco di gente che si sente minacciata, compresi molti latinos dalla pelle bruna come me, cittadini americani passati in seconda classe. Credo che Bernie abbia captato molto di questo sentimento».

GLI AFRO AMERICANI, si è sempre detto, sono la spina dorsale del Partito democratico e da oggi questo è sempre più vero anche degli ispanici, forse di più, visto che si tratta della minoranza in maggior crescita del paese. In queste primarie si sta profilando anche come una componente cruciale della corrente progressista. Certamente nel sudovest del paese, da California e Nevada ad Arizona, New Mexico e Texas, dove il consenso degli ispanici ha tenuto Sanders competitivo con Biden e l’establishment moderato che rappresenta,

Bisogna vedere ora se saranno abbastanza determinanti nel dirimere il sostanziale pareggio fra Biden e Sanders e le rispettive coalizioni: elettori bianchi più anziani, dei sobborghi e afro americani con Biden; working class, ispanici e soprattutto giovani con Sanders. Si tratterà anche di un confronto fra progressisti militanti, che vorrebbero rispondere all’involuzione trumpista con un idealismo che vada oltre la semplice restaurazione dello status quo liberista “illuminato”, ed elettori semplicemente sfiancati da tre anni di trauma quotidiano, dal flusso costante di acredine iniettato dal presidente in una società stremata dal suo attacco frontale alla democrazia. Molti di questi – di quelli che hanno votato Biden – si dichiarano troppo paralizzati dalla paura di un secondo mandato Trump per seguire un candidato dipinto come radicale e «rischioso».

QUESTA È LA NARRAZIONE proposta con veemenza ora dalla coalizione moderata partito che – con l’appoggio di molta liberal media – è riuscita, con una settimana di fuoco incrociato, a istillare il dubbio della non eleggibilità di Sanders nell’elettorato. È una strategia che comporta però anche un rischio implicito per il partito, che per compattare i moderati si trova a smorzare lo slancio dell’ala progressista attivata da Bernie.

LA SPACCATURA PIÙ NETTA e macroscopica rimane forse quella generazionale. Alienare la parte più vitale e giovane del partito, l’unico effettivo movimento ideologico al proprio interno, rischia di rivelarsi un’azione suicida.

Il partito dovrà riuscire a risolvere la crisi di identità prima dello scontro diretto col presidente che sta rottamando la vantata democrazia americana in un’elezione epocale alla quale i democratici rischiano si presentarsi senza l’ideale candidato carismatico capace di unificare le forze. Se non ci riusciranno potrebbero rivelarsi essi stessi i propri peggiori nemici.