Sono anni che la storica ed esperta di cultura ebraica Lia Tagliacozzo va nelle scuole a parlare di leggi razziali, persecuzioni e Shoah. Lo fa soprattutto nel Giorno della memoria, ma ogni volta quella data istituzionalizzata la interroga: come si possono far incontrare fatti che sembrano così lontani con gli accadimenti degli adolescenti di oggi?
Il rischio che quell’appuntamento si svuoti di senso e diventi solo un obbligo didattico per intere classi annoiate è dietro l’angolo. Ma lei non si è mai arresa e ha sempre lasciato aperta una porta: quella di chi vuole uscire senza più ascoltare e quella di chi decide di tornare indietro perché nella sua mente si sono accese alcune luci a intermittenza. Nasce così Tre stelle nel buio, l’ultimo libro di Lia Tagliacozzo (edizioni Manni, pp. 144, euro 14) destinato certamente ai ragazzi e alle ragazze di questa epoca ma anche al corpo docente che cerca l’ordito di un telaio doloroso insieme ai propri studenti, riconsegnando loro le coordinate della Storia (spesso perdute nell’eterno presente del web).

DOMANDA: come può nascere un romanzo dall’esperienza del racconto nelle scuole delle persecuzioni nazifasciste ai danni degli ebrei? Basta saper osservare, anno dopo anno, i comportamenti e le attitudini di quell’«audience» speciale e poi tirare le fila. Alcuni sono insofferenti, come Franki, ribadiscono che non ce la fanno più a sentire sempre la stessa solfa, altri invece collaborano e tentano di cucire insieme anche alcuni loro ricordi, magari pagine di diario che pur solo per affinità emotive, richiamano quel passato terribile (l’isolamento del Covid, la guerra in Ucraina, la paura di non essere accettati, l’esilio dal proprio paese, i partigiani traditi e ammazzati di cui sa Ugo, il bidello).

IN COMPAGNIA di Pupa Garribba (e dei versi di Primo Levi o le parole di Calamandrei), l’autrice registra gli umori di quella platea incerta fra disciplina e disubbidienza e intanto segna una linea del tempo, tentando di mettere ordine nella Storia. Da parte sua, Pupa, classe 1935, nata a Genova, italiana, ma bollata sui suoi documenti come «appartenente alla razza ebraica» narra brani e frammenti della sua biografia privata che, necessariamente, si intreccia con quella di altre migliaia di cittadine e cittadini senza più una casa, un lavoro, una istruzione, in pericolo di vita. Racconta la fuga della sua famiglia attraverso le Alpi, la neve nei boschi, il freddo. Il miraggio era la vicinissima eppure così impervia Svizzera. In ascolto, c’è anche Ahmed: rivede suo padre 19enne in gommone, che si lascia alle spalle i campi di prigionia libici. L’Italia era stata per lui un approdo, lo stesso paese che stigmatizzò gli ebrei fino ai rastrellamenti finali. Stare al di qua o al di là del confine come una questione di vita o di morte è un dilemma che capiscono in molti.

NON TUTTO FILA LISCIO, però. I pregiudizi serpeggiano in classe («perché sempre con voi ebrei se la sono presa?», chiede Emma), ma c’è la storia di nonno Arnaldo a parlare per Lia, mentre Pupa ricorda le ragioni dell’antisemitismo, fino alle teorie cospirazioniste che accusavano gli ebrei di essere a capo di case farmaceutiche e di guadagnare con la pandemia. Il Giorno della memoria, allora, diventa un tempo vivo, pulsante, incandescente. Un laboratorio del futuro.