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Giannina Braschi, allo specchio dei diritti la lingua si scopre bifronte

Giannina Braschi, allo specchio dei diritti la lingua si scopre bifronteOlga Abizu, «Senza titolo»

Interviste letterarie Lo spanglish orecchiato nelle strade di Battery Park porta alla nuyoricana Giannina Braschi una musicalità ben resa da Tess O’Dwyerin in «Yo-Yo Boing!» (in Italia da Edicola ediciones): conversazione con entrambe le autrici

Pubblicato 9 mesi faEdizione del 18 febbraio 2024

Benché pochi la conoscano in Italia, Giannina Braschi è autrice di testi in prosa e in poesia che la Biblioteca del Congresso statunitense ha classificato fra i «classici del pensiero postmoderno».

Nel 1977 ha lasciato la nativa San Juan per andare a risiedere a New York; poi l’11 settembre l’ha indotta, assieme ad altri portoricani, a spostarsi verso quartieri lontani dal mare.

Per anni ha continuato a scrivere sia in spagnolo che in spanglish, ovvero da una prospettiva panamericana di non appartenenza, richiamandosi – nella struttura della metrica – ai classici del Siglo de Oro e, più indietro ancora, alle ecloghe cinquecentesche di Garcilaso de la Vega.

In Italia è appena stato pubblicato Yo-Yo Boing!, del 1998, (traduzione di Alessia Patané, prefazione di Cristina Garrigós, con tre tavole dell’artista ucraino Michael Zansky, Campanotto, pp. 72, € 15,00).

Nella sua spuria musicalità e con i suoi bisticci idiomatici, lo «spanglish» di Braschi è quello quotidianamente orecchiato nelle strade di Battery Park, e sembra voler alternare in parti uguali l’inglese e lo spagnolo, quasi a realizzare, almeno sulla carta, quella parità di diritti a cui aspirano tutti i nuyoricani.

Nel nostro incontro abbiamo coinvolto anche la traduttrice Tess O’Dwyer, che da anni affronta i temi translinguistici di questa scrittura bifronte, ed è curatrice (con Fredrick Luis Aldama) della prima monografia dedicata a Giannina Braschi, Poets, Philosophers, Lovers, (Pittsburgh University Press, 2020).

Lo «spanglish» sembra proporsi come terreno di scontro tra voci e accenti ispanici e angloamericani, un campo di contesa permanente che riflette la condizione di chi si dibatte, da esule, in una doppia appartenenza evocata, anche nel titolo di questo libro nel movimento altalenante di uno yo-yo.

Giannina Braschi. Yo-Yo Boing! è per me anzitutto un gioco linguistico, ispirato agli sketch televisivi dell’attore comico portoricano Luis Antonio Rivera, che, in piena guerra fredda, conquistò un vasto pubblico, con lo pseudonimo di Yoyo Boing,  inscenando battibecchi incalzanti. Con pari piglio grottesco, la mia protagonista autobiografica, También, profondamente scissa tra la sua cultura dell’origine e quella nordamericana, inscena lo scontro linguistico che nasce dal suo vivere in un paese straniero, anche se tecnicamente i portoricani negli Stati Uniti non possono essere considerati una minoranza, bensì cittadini senza pari diritti che, attraverso la loro lingua bifronte, esprimono i limiti sociali della loro imperfetta integrazione.

Anche il mio ecumenismo linguistico nasconde indubbiamente una critica della cultura WASP e delle intolleranze dell’egemonia puritana che ha promosso solo la parte bianca della popolazione statunitense. Gli standard di efficienza e di produttività promulgati da Wall Street ancora diffondono un modello imprenditoriale uniforme, che ci ha trasformati tutti in sardine in doppiopetto che viaggiano addossate nei treni metropolitani. Ma il mio Io non è affatto esangue, ed essendo molto più antico della mia stessa voce, libera un’energia che spezza la routine del lavoro finalizzato al profitto. Come mostro nell’Impero dei sogni (1988), la stessa routine ha prodotto la colonizzazione turistica che in pochi anni ha trasformato i Caraibi in un immenso resort fatto di anonime zone residenziali senza un proprio carattere, rendendo per me impossibile il ritorno.

In quanto idioma del dilemma e del conflitto, anche per il lettore italiano lo spanglish diventerà una lingua in cui è difficile acclimatarsi, perché – sebbene tradotta – è comunque scossa dalla continua incursione di realia, di omofonie e trompe-l’œil, tipici di una lingua non materna. Allo stesso tempo, però, questo idioma meticcio illude il lettore, mettendolo di fronte a stilemi di un lessico che sembra familiare, e invece rimanda al fraintendimento.

Tess O’Dwyer. La mia versione angloamericana di Yo-Yo Boing! è meno radicale di quella brillantemente sperimentata da Alessia Patané nell’edizione italiana; ma anche per me il translinguismo di Braschi è un evidente strumento di provocazione politica e culturale. Non c’è traduttore dallo Spanglish che non venga spinto a costruire nella propria lingua madre un terreno meticcio che faccia riemergere, di colpo, il sostrato ispanico, proprio come avviene nel gioco dello yo-yo.

Quali sono le matrici letterarie di questa sperimentazione bilinguistica?

Giannina Braschi

Giannina Braschi. La pluralità di voci che si scontrano nel mio monologo drammatico ha un’indubbia matrice teatrale, e, proprio in virtù di questa vocazione distintamente performativa, il mio racconto non prende mai la forme di un romanzo, inteso in senso realistico. In questa prosa poetica che Henry James avrebbe definito un «loose baggy monster», la mia voce si perde consapevolmente nel coro anonimo di tutte le minoranze non perfettamente integrate che, dai latinos alla comunità LgbtQIA+, sono facile oggetto delle mire coloniali che le chiama a rinfoltire le file dell’esercito federale. Ho scritto Yo-Yo Boing! nell’era espansiva in cui Clinton promosse una politica di apertura multiculturale che (come ricorda il saggio di Werner Sollors del 1998) è sempre anche multilinguistica, e che poi Trump ha cercato di smantellare con tutte le sue forze.

In Stati Uniti di Banana (2011), che è il mio libro sull’undici settembre, incarno un Segismundo che, appena uscito dal dramma filosofico-teologico di Calderón de la Barca, si allontana dalla torre in cui è rimasto a lungo rinchiuso, per andare ad assistere alla devastazione di Ground Zero. Quel crollo epocale, che ha travolto due simboli fondativi dell’impero statunitense, investe, nella mia immaginazione, anche la corona della statua della Libertà. Quando questa finisce in mare, nel vederla fluttuare sull’Atlantico, Sigismundo vi approda quasi fosse una zattera. Alla fine del mio racconto iperbolico, il mio paese diviene il cinquantunesimo stato USA, come molti portoricani parrebbero auspicare, ma poi anche loro si ribellano a quest’annessione con una nuova rivolta caraibica.

Interamente costruito su schegge dialogiche e sulle due lingue che conflittualmente convivono nell’identità nuyoricana, «Yo-Yo Boing!» ricorda per molti versi il lavoro di Ezra Pound, che fu instancabile viaggiatore tra le diverse lingue e poetiche d’Europa. Anche il suo torrenziale ventriloquio pone al centro del discorso un impasto di lingue saldamente ancorato alle invenzioni della sperimentazione moderna.

Tess O’Dwyer. A Rutgers ho avuto il privilegio di studiare con José Vázquez Amaral, grande traduttore messicano di Pound, nonché amico di William Carlos Williams. Fu lui a insegnarmi a ordire un fitto tessuto di voci capace di mettere in circolo quante più lingue possibili. La mia familiarità con la scrittura poundiana mi ha aiutato a farmi largo, da traduttrice, nel disordine linguistico di Yo-Yo Boing!, individuando anche la mia voce dalle origini irlandesi-coreane tra quelle degli altri personaggi male assimilati di Braschi.     

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