Lo ha detto Bebo dello Stato Sociale dal palco di piazza Alimonda, «pardon, piazza Carlo Giuliani» (come canta Alessio Lega in “Dall’ultima galleria”): «Dentro di noi, che eravamo adolescenti e non eravamo a Genova nel 2001, oggi risuona l’eco di giorni stupendi conclusi in modo terribile. C’è una cosa che la mia generazione ha preso da quei giorni: il lascito di fiducia in ciò che verrà domani; valgono ancora le parole: un altro mondo è possibile». È vero, erano giorni stupendi, perché Genova quell’estate accolse un movimento forte, creativo, profetico esteso tutt’attorno al pianeta; furono anche giorni terribili, perché sappiamo come finì, coi pestaggi, le torture, l’omicidio di Carlo, il rifiuto politico delle ragioni del movimento; un rifiuto rovinoso, che ha segnato un’epoca.

Nei nuovi libri di storia l’estate del 2001 è però liquidata in poche righe, per dire che negli anni del berlusconismo, fra tanti misfatti, ci fu anche quel tragico luglio di scontri, di torture e di morte; che uno strano movimento fece capolino e fu stroncato con la forza: una brevissima stagione già dimenticata.

È una rimozione che sfida la storia e anche il presente. Perché torni a Genova, pensi al 2001 e appena sollevi lo sguardo ecco la guerra in Ucraina e il riarmo del mondo, ecco l’Europa dei muri e del «lasciar morire» nel Mediterraneo, ecco gli eventi estremi e il collasso del clima, ecco il ritorno dei nazionalismi e l’avvento delle destre estreme come forze di governo. Pensi al 2001 e sai che un altro mondo era possibile. Quel movimento portò a Genova – via Seattle e Porto Alegre – una nuova lettura del mondo e disse che il pensiero unico neoliberista avrebbe portato il pianeta alla rovina, di guerra in guerra; guerre per l’accesso all’acqua e alle terre rare; guerre contro le migrazioni; guerre ai Sud del mondo; guerre di dominio. Un altro mondo era possibile, con nuove parole d’ordine: senso del limite in economia; cooperazione nei rapporti fra stati; giustizia ecologica (oggi diremmo climatica) per il pianeta…

Potremmo indicare le rovine del presente e dire: avevamo ragione noi. Ma non servirebbe a niente, perché contano i rapporti di forza e la storia non si riscrive a tavolino. Possiamo però rifiutare la rimozione e dire che l’estate del 2001 è stata un momento di verità. Si scontrarono allora due visioni del mondo e possiamo affermare, con l’esperienza di oltre vent’anni, che una visione era volta a «ciò che verrà domani» e anticipava i cupi scenari in arrivo per proporne di nuovi, attorno a «un’economia capace di futuro», come si diceva allora; l’altra visione era invece tutta calata nel presente, con la sua promessa di crescita infinita, di «globalizzazione» del benessere, di «pacificazione» sotto l’egida di un potere tecnocratico animato da una forma di pensiero magico, nel quale scompaiono i conflitti sociali, i limiti ecologici allo sviluppo, la complessità delle forme di vita sul pianeta Terra.

Lo scontro fu vinto, in apparenza, dai globalizzatori neoliberisti, dalla destra politica cui si unirono le maggiori forze di sinistra – o eredi della sinistra storica – che scelsero di cavalcare gli «spiriti animali» del nuovo capitalismo, con la fallace speranza di cavalcarli.

Ma quella vittoria è stata anche una sconfitta, perché niente è rimasto delle promesse di allora. Crescita infinita, benessere globale, pacificazione tecnocratica non sono più in agenda. La nuova promessa dei globalizzatori è piuttosto una minaccia e in molti casi una realtà già presente: è la prospettiva di una militarizzazione generale, con nuove forme di apartheid, il razionamento dei diritti e uno stato di guerra permanente. Il tutto mentre il mondo è in fiamme, come diceva Naomi Klein, qualche anno fa, in un libro che preconizzava la via di una necessaria rivoluzione per salvarsi dal collasso climatico, politico e sociale in corso.

Questa rivoluzione non è (ancora) all’ordine del giorno, ma resta necessaria, e quindi è giusto tornare al 2001 e riprendere il filo del discorso, sapendo che le ragioni di allora vivono nel presente, nelle mille lotte aperte, nelle disobbedienze di Ultima Generazione e nei piedi piagati dei migranti lavati a Trieste da Lorena e Gianandrea di Linea d’ombra; in una fabbrica in via di recupero cooperativo a Campi Bisenzio e nell’Alta felicità della Val di Susa… Le attuali classi dirigenti non sono all’altezza delle urgenze globali e non hanno un’idea credibile e decente di futuro, per cui occorre che gli attivisti, i pacifisti, i consapevoli, i non rassegnati, insomma che tutte le persone in movimento «si facciano classe dirigente», per dirla con le parole (e con i fatti) del Collettivo di fabbrica della ex Gkn, il cui canto – “E non c’è resa / non c’è rassegnazione / ma solo tanta rabbia / che cresce dentro me” – si è levato non per caso l’altro giorno in piazza Carlo Giuliani. Il «lascito di fiducia in ciò che verrà domani» non dev’essere disperso. Il filo non si è spezzato, la storia continua.

*autore, con Vittorio Agnoletto, di “L’eclisse della democrazia” (Feltrinelli 2021)