Luay e Najah sono fratello e sorella. Erano contadini, oggi sono sfollati a Rafah. Tra le tende di uno dei campi che hanno «resistito» all’ennesimo sfollamento forzato hanno piantato erbe e verdure. Le coltivano per mangiarle e condividerle con i vicini. Le loro foto, mentre innaffiano le piantine con acqua sporca di terra, le ha pubblicate ieri l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, Unrwa: «Speriamo di tornare alle nostre case e alle nostre fattorie, anche se sappiamo che sono state distrutte», dicono.

IERI, 12 GIUGNO, cadeva il 250esimo giorno di offensiva israeliana su Gaza. L’ufficio stampa del governo di Hamas ha pubblicato i numeri della carneficina, individuale e collettiva, sociale ed economica. Numeri che le agenzie dell’Onu e le organizzazioni internazionali giudicano credibili: 37.202 uccisi (di cui 15,694 bambini, 498 operatori sanitari, 150 giornalisti) a cui si aggiungono 33 morti per fame, 10mila dispersi, 84.932 feriti, 350mila malati cronici senza più terapia, 17mila bambini orfani di almeno un genitore, 5mila arrestati, 79mila tonnellate di esplosivo sganciate da Israele sulla Striscia, 103 ambulanze e 206 siti storici e archeologici distrutti, 16 ospedali su 64 cliniche tuttora operativi.

Da mesi i numeri lievitano e le opinioni pubbliche si anestetizzano anche quando in un solo giorno di palestinesi ne ammazzano 274 e si parla di «operazione di successo». Per un pezzo di politica e di media l’ultimo strumento della disumanizzazione e della giustificazione morale del colpevole. A Gaza si muore, e basta.

La breccia l’ha rotta la Corte internazionale di Giustizia e poi la procura di quella Penale internazionale. E ieri la Commissione indipendente dell’Onu sui Territori occupati palestinesi che nel suo rapporto ha confermato quanto contenuto nella richiesta di mandati d’arresto per il premier Netanyahu e il ministro della difesa Gallant da una parte e dei leader di Hamas, Haniyeh, Deif e Sinwar dall’altra.

Lamentando gli ostacoli alle indagini poste da Israele ai membri della Commissione, il rapporto accusa Hamas della presa di ostaggi, stupro, torture e maltrattamenti e Israele dei crimini di sterminio, trasferimento forzato, tortura e persecuzione di genere di uomini e ragazzi in riferimento ai prigionieri spogliati e denudati «con l’obiettivo di umiliare l’intera comunità e accentuare la subordinazione di un popolo occupato».

La Commissione chiede a Tel Aviv «la fine immediata delle operazioni militari». Che invece continuano, non le hanno fermate né i tribunali dell’Aja né le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu per l’assenza di sanzioni internazionali concrete. Ieri a Gaza è stata un’altra giornata di guerra con – tra gli altri – la distruzione di un complesso residenziale a Rafah, fatto saltare in aria nel campo di al-Shabura, un bombardamento a al-Mughraqa che ha ucciso cinque persone, uno a Gaza City contro una casa (sei vittime).

NELLE STESSE ORE il segretario di stato Blinken era a Doha per incontrare i vertici qatarioti, i mediatori per eccellenza tra Hamas e Israele. Sul tavolo la famosa proposta di accordo mossa dal presidente Biden e che ieri Mohamad Elmasry, docente al Doha Institute of Graduate Studies, definiva «molto fuorviante»: «È un gran macello. Le cose sono molto contorte. Penso che gli Usa siano deliberatamente fuorvianti».

Perché insistono a presentarla come un piano di Israele. Blinken lo ripete di continuo, ma Israele non lo ha mai accettato. Di fatto la situazione è la stessa dei mesi scorsi, le posizioni restano lontanissime. Ieri il quotidiano libanese al-Akhbar ha pubblicato in esclusiva i contenuti della risposta di Hamas alla proposta: no al ritiro totale dell’esercito israeliano solo nella seconda fase, il ritiro deve avvenire entro i 42 giorni della prima, durante la quale il movimento islamico palestinese libererà 33 ostaggi (tre ogni tre giorni).

Secondo la Casa bianca, la maggior parte degli emendamenti (che Hamas chiama chiarimenti e non «nuove idee») sono «minori», altri invece «differiscono dalla risoluzione» votata due giorni fa in Consiglio di Sicurezza. A guardarlo da fuori, il processo di negoziato assomiglia sempre di più a una grande nebulosa.

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«Il corpo di Daqqa merce di scambio»

Alla Corte suprema israeliana che chiedeva – su ricorso dell’associazione Adalah – perché il corpo di Walid Daqqa, palestinese morto in detenzione, non fosse stato riconsegnato alla famiglia, il governo ha risposto che intende usarlo in un futuro scambio tra prigionieri palestinesi e israeliani con Hamas. La Corte si esprimerà oggi.

Daqqa, palestinese con cittadinanza israeliana, è morto di cancro il 7 aprile dopo 38 anni in carcere. Membro del Pflp, in cella si è laureato e ha scritto saggi e romanzi. «Israele nega ai palestinesi il diritto di essere sepolti con dignità – commenta Adalah – Un esempio del sistema di repressione dei palestinesi, da vivi e da morti».