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Gas, tutti vogliono il decreto ma c’è l’incognita parlamento

Gas, tutti vogliono il decreto ma c’è l’incognita parlamentoIl presidente del Consiglio Mario Draghi

Emergenza energia Perché il governo possa intervenire serve un’intesa, difficile, tra i partiti in campagna elettorale. Nelle aule è a rischio anche il numero legale. Per la Cgia di Mestre nel 2022 le imprese energetiche hanno aumentato i ricavi del 60%

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 28 agosto 2022

I conti li ha rifatti ieri la Cgia di Mestre. Se le grandi imprese dell’energia continueranno a eludere la tassa sugli extra profitti introdotta a maggio con il primo decreto “Aiuti”, a fine anno l’erario perderebbe 9 dei 10,5 miliardi di gettito previsto. Una cifra non lontana da quella che cerca il governo per prolungare di tre mesi, e dunque fino al 31 dicembre, il credito di imposta del 25% delle spese per l’energia alle imprese, nonché per evitare che dal 20 settembre il prezzo dei carburanti torni a impennarsi per la fine degli sconti su accise e Iva.

Su come recuperare all’erario almeno parte degli extra profitti che derivano dall’impennata del costo del gas la discussione, nel governo, è ancora aperta. Le frenate dipendono dal minacciato ricorso delle imprese energetiche che pure, secondo la stessa Cgia, nei primi cinque mesi del 2022 hanno registrato un aumento dei ricavi del 60%. Ma considerano la tassa supplementare illegittima (e infatti non l’hanno pagata come previsto). Come alternativa a questo extra gettito, per passare dal castello di dichiarazioni, impegni, promesse e annunci da campagna elettorale ai fatti di un provvedimento di legge, c’è solo quella di autorizzare un altro scostamento di bilancio. Che però Draghi non vuole: lo considera fuori dal perimetro degli «affari correnti».

Quel che è peggio è che la proroga dei bonus e degli sconti, introdotti a maggio e confermati a inizio agosto nel decreto “Aiuti bis” non sarebbe che una goccia nell’oceano. Perché nel frattempo il prezzo del gas è quasi raddoppiato (in un mese). Le cifre di cui parlano i partiti nei dibatti elettorali per fare fronte alla nuova emergenza e calmierare sia le bollette delle imprese che quelle delle famiglie, volano verso altre e più vertiginose altezze: venti, trenta miliardi.

Enrico Letta rimprovera a Berlusconi, Salvini e Conte di aver fatto cadere Draghi: «Con quale credibilità pretendono ora delle misure da lui?». Conte si arrabbia: «Noi incalzavamo Draghi sul caro bollette quando tu eri distratto dalla furia bellicista». Berlusconi (e sempre più spesso anche Meloni) raccontano che loro non c’entrano niente con la caduta di Draghi. Calenda ne approfitta per la sua tempesta quotidiana di tweet contro Letta, accusato adesso di non volere il gas perché in uno dei suoi manifesti invita a scegliere le energie rinnovabili contro i combustibili fossili.

In realtà non è in discussione il fatto che il governo interverrà, il dubbio destinato a sciogliersi solo questa settimana è per quale cifra e con quale strumento legislativo. Il presidente del Consiglio in carica per il disbrigo degli affari correnti non ha incertezze sul fatto che anche un esecutivo dimissionario possa e debba fare fronte a un’emergenza del genere – che peraltro lo stesso esecutivo quando era nella pienezza dei poteri non aveva previsto di questa entità. Non c’è tanto un problema di legittimità quanto un problema di efficacia.

Non si può infatti fare troppo affidamento sui partiti a pochi giorni dal voto. Qualsiasi provvedimento, sia esso nella versione light di un maxi emendamento al decreto “Aiuti bis” (che anche se scade a inizio ottobre va convertito prima del voto) sia esso un decreto tutto nuovo, rischia di andare a sbattere contro un parlamento ormai in dismissione. In questa fase per un decreto legge, come ha ricordato ieri l’ex presidente della camera Violante, serve un’intesa preventiva di fronte alla quale anche il capo dello stato che lo firma per l’emanazione non avrebbe problemi.

Serve soprattutto un impegno a non trasformare il passaggio nelle commissioni e in aula in un assalto alla diligenza, altrimenti più che probabile in piena campagna elettorale. D’altra parte il governo dimissionario non può ricorrere alla fiducia, dunque nulla può escludere che anche una minoranza di parlamentari contrari possa alzare un muro di emendamenti. Infine c’è un’ulteriore problema che è quello della presenza nei palazzi di deputati e senatori impegnati in una campagna elettorale già strettissima. Nessuno vuole correre il rischio di lasciare campo libero nelle piazze agli avversari. Il rischio che dopo tanto allarme nelle aule manchi il numero legale è concreto.

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