Fuggi-fuggi ma non troppo: il cerchio magico di Trump resiste
Stati Uniti Mezzo entourage si dimette, le banche lo mollano. E arriva l'onta peggiore: disdetto un torneo di golf nel suo «green». Ma gli elettori gli restano fedeli, insieme allo zoccolo duro del trumpismo dentro il partito repubblicano
Stati Uniti Mezzo entourage si dimette, le banche lo mollano. E arriva l'onta peggiore: disdetto un torneo di golf nel suo «green». Ma gli elettori gli restano fedeli, insieme allo zoccolo duro del trumpismo dentro il partito repubblicano
Trump isolato? Ma quando mai. Non è poi così lunga, la lista di chi ha abbandonato il presidente dopo il putsch di Capitol Hill. Soprattutto non è quella diserzione di massa invocata dopo il sanguinoso assalto alla democrazia personalmente istigato dalla Casa bianca.
Del resto, mentre le scalinate di Capitol Hill ancora fumavano, otto senatori e 139 deputati repubblicani avevano votato imperterriti contro la certificazione del risultato elettorale, precisamente il motivo per cui il mob aveva violato il Campidoglio.
Nemmeno i morti, i feriti e l’invasione del loro stesso palazzo li aveva spostati dalla linea di re Donald: non riconoscere il risultato elettorale, mai, base fondativa di ogni futura attività politica del presidente.
Dopo il putsch, un solo senatore pro-Trump ha detto esplicitamente «I want him out», lo voglio fuori. È la senatrice della spopolata Alaska, Lisa Murkowski. E ci ha messo due giorni a esprimersi, su un foglio di Anchorage. Insieme al miliardario Mitt Romney, noto avversario interno di Trump, guida ora la carica dei repubblicani che vogliono liberarsi di un leader prima ingombrante, poi scomodo, infine eversivo.
Si sono dimessi la ministra dei trasporti Elaine Chao, quella dell’istruzione Betsy DeVos beniamina della destra religiosa, l’ex capo dello staff Mick Mulvaney, il capo della sicurezza informatica John Costello, il viceconsigliere per la sicurezza nazionale Matt Pottinger…
Ma se il vicepresidente Mike Pence non prende più ordini (anche se rifiuta di avviare la rimozione del presidente), se il leader del senato Mitch McConnell ha voltato le spalle a Trump, il cerchio magico è ancora pienamente al lavoro. Come il senatore texano Ted Cruz.
Come il segretario di Stato Mike Pompeo che negli ultimi giorni del regime ha iscritto Cuba tra i paesi terroristi e tuonato contro Voice of America (la rete radio-tv mondiale del governo) per aver «criticato il paese».
Con loro, un pugno di deputati che in quel maledetto 6 gennaio sbraitavano dalle scale di Capitol Hill. Come Mo Brooks, repubblicano dell’Alabama: «Oggi è il giorno in cui i patrioti americani tireranno giù qualche nome e calceranno qualche culo». Come Paul Gosar (Arizona) che ha twittato una foto dei rivoltosi: «Voglio la concessione di Biden sul mio tavolo domani mattina. Non fatemi venire fino a lì».
Come Marjorie Taylor Green (Georgia) e Lauren Boebert (Colorado): «Oggi è un momento 1776», anno della dichiarazione di indipendenza. La radicalizzazione delle truppe trumpiste cresce un po’ ogni giorno, il braccio di ferro tra i conservatori è in pieno svolgimento.
Così il Nobel per l’economia Paul Krugman sul New York Times: «A lungo i repubblicani hanno pensato di poter sfruttare razzismo e teorie cospiratorie restando focalizzati sulla loro agenda plutocratica. Ma con l’arrivo (…) di Donald Trump, i cinici si sono accorti che i matti erano al comando. E volevano distruggere la democrazia, non tagliare le tasse sui capital gains».
La società civile? L’ultimo sondaggio (Quinnipiac University) fissa al 33% l’approvazione di Trump, con il 71% dei repubblicani che continuano ad approvarlo. Il 71! L’allenatore dei New England Patriots Bill Belichick ha restituito la Medal of freedom appena assegnatagli.
Il direttore di Forbes ha lanciato un anatema contro i responsabili della comunicazione della Casa bianca presenti e passati: «Non ingaggiateli, altrimenti assumeremo che ogni cosa dicano della vostra azienda sia una bugia».
Sean Spicer, Sarah Huckabee, Stephanie Grisham e l’attuale portavoce Kayleigh McEnany sono i volti da cui ogni americano ha appreso il trump-pensiero per quattro lunghi anni. La città di New York «sta valutando il taglio dei rapporti con la Trump Organization», a cui versa ogni anno circa 17 milioni di dollari per giostre, piste di pattinaggio e campi da golf.
Lasciano il trumpismo la Deutsche Bank e la Signature, istituti di credito che hanno generosamente appoggiato la scalata di Donald. La banca tedesca è stata per vent’anni la sua principale fonte di credito e ha uno scoperto di 300 milioni di dollari. Signature Bank ha chiesto al presidente di dimettersi «per il miglior interesse del paese».
La piattaforma di e-commerce Shopify ha chiuso la rete di negozi online affiliati al presidente. E – onta delle onte – la Professional Golf Association ha disdetto un torneo internazionale previsto su un green di Trump in New Jersey. «Non possono farlo, ci sono dei contratti già firmati», è stata la reazione dell’entourage trumpista. Parleranno gli avvocati – come se non avessero altro da fare.
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