Fuga oltre confine, prima tappa Bulgaria
Sono centinaia i profughi siriani che attraversano le frontiere bulgare rischiando spesso di finire in carcere. Rinchiusi nei centri di transito aspettano lo status di rifugiati senza certezze
Sono centinaia i profughi siriani che attraversano le frontiere bulgare rischiando spesso di finire in carcere. Rinchiusi nei centri di transito aspettano lo status di rifugiati senza certezze
«Yasser, come Yasser Arafat?». «Yasser, come qualcuno che cerca un po’ di pace su questa terra». I passi frusciano appena percettibili sull’acciottolato, mentre attraversiamo l’ampia e vuota piazza centrale di Svilengrad, pochi chilometri dalla frontiera con Turchia e Grecia, immersi nella luce che avvolge il pomeriggio ancora caldo di settembre.
«La prima volta che sono venuto in Bulgaria, nel 2008, partecipavamo a un festival folkloristico a Pernik. È stato bello. ’Mi piacerebbe vivere qui’, mi ero detto allora. Non sapevo che ci sarei tornato per scappare da un incubo e finire in questo vicolo cieco». Yasser è un palestinese di Siria, 31 anni, ballerino professionista. Abitava in un villaggio intorno a Damasco. È scappato quando ha visto i suoi amici ammazzati da cecchini nelle strade del paese. È fuggito prima in Turchia, poi in Bulgaria, pagando come tutti 600 dollari al trafficante che gli ha mostrato la via attraverso la boscaglia.
«Mi hanno preso, mi hanno picchiato, mi hanno messo nel campo di Lyubimets, in Bulgaria. Lo chiamano ’centro chiuso’, ma è una prigione. Lì non ti permettono di avere un cellulare con la fotocamera, non vogliono che il mondo veda in che condizione tengono chi ci sta dentro. E la sola colpa di chi ci sta dentro – aggiunge – è cercare di salvarsi la pelle».
«Per la Siria è finita. Non ci sarà più alcuna Siria». Agir parla con voce tranquilla, ma con un tono che non ammette replica. Ha 19 anni, è arrivato in Bulgaria con tutta la famiglia, padre, madre e sei tra fratelli e sorelle. È di al-Qamishli, nel nord est curdo della Siria, a un tiro di schioppo dal confine turco. «In città siamo tutti curdi», sottolinea più volte. Ha studiato recitazione ad Aleppo, ma poi si è rifugiato per un anno a Erbil, nel Kurdistan iracheno, dove gestiva un’impresa commerciale. «Ma nemmeno lì i curdi siriani sono i benvenuti».
«Se l’esercito di Assad ti prende, ti fucilano solo perché sei curdo. Ma se non vuoi combattere contro il regime, allora magari ti ammazzano perché ti considerano un traditore. Non si può più vivere in Siria: chissà quando e se potremo mai tornare». A Qamishli la famiglia di Agir ha lasciato la propria casa e «tre negozi, più grandi di un supermercato». «Mio padre – racconta Agir – non smette di sospirare. Mia madre non smette di piangere».
«Mia moglie è morta durante un bombardamento, di fronte ai miei occhi. Anche mio nipote, che portava il mio nome, è stato colpito in pieno. Aveva sette anni. Ne hanno ritrovato solo brandelli». Yahya ha 73 anni, viene da Aleppo. Gli manca il braccio sinistro, ma non ho il coraggio di chiedergli se l’abbia perso durante il conflitto. Ha tre figli che vivono da anni in Svezia. Uno di loro, è tornato in Siria per portarlo via.
È sceso in macchina fino alla città di ar Raqqah, nel nord della Siria, e da lì è riuscito ad arrivare in Bulgaria dopo aver attraversato la Turchia. Al confine turco-bulgaro, però, è stato fermato: non aveva i documenti in regola. Anche Yahya ha dovuto passare sedici giorni nel «centro chiuso» di Lyubimets.
Ora aspetta che le autorità bulgare decidano se garantirgli o meno lo status di rifugiato. Solo allora potrà riprendere il viaggio, e arrivare in Svezia, dove i figli lo stanno aspettando. Non esiste però una procedura né tempistiche precise per rispondere alla domanda di asilo. «Sono solo, sono vecchio, sono straniero. Non posso far altro che aspettare».
Una tappa di passaggio
Dall’inizio della crisi siriana, la Bulgaria ha visto aumentare esponenzialmente l’arrivo di profughi e richiedenti asilo dal paese lacerato dalla guerra civile. Tutti arrivano dopo essere transitati in Turchia. Tutti o quasi, vedono nella Bulgaria solo una tappa di passaggio, nel tentativo di raggiungere i paesi dell’Europa centrale e settentrionale. Molti, come Yahya, hanno parenti e amici che li aspettano, ma non possono raggiungerli, almeno fino a che non saranno usciti dal limbo legale in cui sono bloccati.
Negli ultimi mesi, secondo i dati ufficiali, il loro numero ha subito una brusca accelerata. Tanto che il governo di Sofia teme una vera ondata, difficile da gestire con le scarse risorse del paese, ora a guardia del confine sud-orientale dell’Unione europea. «Se nei mesi passati registravamo 400 arrivi al mese, ad agosto abbiamo toccato i 1.500», ha dichiarato nei giorni scorsi il vice-ministro degli Interni Vasil Marinov. «Dall’inizio di settembre, sono già 550». Ogni giorno la polizia di frontiera ferma decine di persone e secondo le autorità bulgare, le limitate strutture di accoglienza del paese sono già esaurite.
Nel caso di un’ulteriore escalation militare, però, il peggio potrebbe ancora arrivare. Tanto che il ministero della Difesa ha annunciato la decisione di mettere a disposizione 26 siti oggi in disuso, che potrebbero fornire un tetto provvisorio ad almeno 10mila persone. In caso di reale necessità, utilizzare le strutture non sarà però facile. «Buona parte degli edifici in questione sono in pessime condizioni», ha dichiarato il ministro competente Angel Naydenov, aggiungendo che «la sistemazione dei profughi potrebbe avvenire solo dopo consultazioni con altri ministeri, con le municipalità interessate e la popolazione locale».
Preoccupata da scenari estremamente costosi in termini umani, politici ed economici, Sofia ha accarezzato l’idea di sigillare le proprie frontiere, idea che ha lasciato presto cadere sia perché in aperto contrasto con impegni internazionali (come la convenzione di Ginevra sui rifugiati) sia perché difficilmente applicabile sul terreno.
Al tempo stesso, la Bulgaria guarda a Bruxelles per ottenere aiuto. «Non abbiamo molta esperienza nel gestire questo tipo di emergenze, ma riceveremo supporto tecnico dalle strutture Ue che si occupano di dare sistemazione ai rifugiati», ha dichiarato ai media bulgari il ministro degli Interni Tsvetlin Yovchev. «Esiste la possibilità che la Bulgaria possa ricevere anche aiuti economici diretti per affrontare le attuali sfide», ha aggiunto il ministro che in questi giorni ha dialogato sia con il commissario degli Affari Interni Ue Cecilia Malmström che con quello per la Cooperazione internazionale e gli aiuti umanitari Kristalina Georgieva.
L’11 settembre il governo ha disposto di assicurare in via d’emergenza nuovi 350 posti per i profughi in arrivo. «In tempi ristretti – ha dichiarato Yovchev – sono certo che potremo dire di aver messo la situazione sotto controllo».
Una visita a Pastrogor
Vista dal «centro di transito» di Pastrogor, però, la sicurezza ostentata dal ministro sembra affrettata. Siamo a sei chilometri a nord di Svilengrad, non lontano dal confine con la Grecia e la Turchia. L’apertura del centro, accompagnata da vari scandali sulla gestione dei fondi (europei e locali) necessari a realizzarlo è avvenuta nel maggio 2012, per ospitare persone di cui si dovesse accertare lo status e il diritto a essere accolti dalla Bulgaria come rifugiati. È qui che oggi vivono Yasser, Agir e molti altri.
Il centro ha una capienza ufficiale di 300 posti, ma al momento, ci dicono in modo informale i responsabili della sicurezza davanti al cancello (non abbiamo ricevuto l’autorizzazione a entrare, nonostante la richiesta all’Agenzia per i rifugiati), a Pastrogor ci sono più di 500 persone, di cui circa 150 bambini. Almeno il 90% arrivano dalla Siria. «Non ci sono più letti, ci fanno dormire su materassi stesi per terra», racconta il giovanissimo Mohamed, arrivato qui da poche settimane dopo essere fuggito da Aleppo. «Al massimo stendiamo delle coperte per avere un po’ di privacy, ma ci sono stanze in cui vivono contemporaneamente cinque famiglie».
Ad appena un anno dall’apertura, ci assicurano sia gli addetti alla sicurezza che le persone costrette a viverci, all’interno il centro è in condizioni pietose. I bagni, si lamentano le donne con cui parliamo appena fuori dal centro, sono letteralmente inutilizzabili, e non sono rari i momenti di tensione quando nuovi arrivati vengono sistemati in locali già superaffollati. Tanto che a luglio Pastrogor è stato al centro di una rivolta simbolica, inscenata per attirare l’attenzione di istituzioni e società bulgara sulle condizioni di chi ci vive.
Ognuno degli «ospiti» del centro riceve 65 leva (poco più di 30 euro) al mese per il proprio sostentamento. Nella struttura c’è una mensa che però non funziona, uno spaccio, che a detta dei richiedenti asilo ha prezzi troppo alti e un medico, di cui però tutti si lamentano. Per chi ha bambini piccoli, e sono in tanti, la situazione è drammatica. Comprare latte in polvere e pannolini è tanto necessario, quanto difficile.
Pastrogor è un centro «a regime aperto», il che significa che tutti possono uscire liberamente. Dove andare però? Il vicino villaggio ha appena 130 abitanti, quasi tutti pensionati. Una taverna, un negozio di alimentari. Niente di più. Qui alcuni ragazzi e uomini siedono intorno a un tavolino di plastica e guardano in tv il telegiornale di al-Arabiya. Sono arabi siriani, curdi, palestinesi di Siria.
«In Siria vivevamo bene, avevamo tutto», sospira Mohamed. «Vedi? Qui ci sono uomini e donne di tutte le etnie del paese, e tra di noi non c’è nessun problema. In Siria siamo tutti una sola grande famiglia». E allora, perché la guerra? Mohamed guarda per un attimo il fumo che si leva a spire lente dalla sigaretta che tiene tra le dita. «Non so». Tra i presenti si accende una discussione in arabo, tanto accesa quanto breve. Poi tutto tace.
Ci fermiamo a parlare con gli abitanti del villaggio. Alcuni si lamentano della presenza dei profughi, che ruberebbero frutta e verdura dagli orti. «Hanno più diritti loro di noi, che viviamo a casa nostra, ma abbandonati dal nostro stesso paese», ci sentiamo dire più volte. Di problemi seri, però, non ce ne sono stati e i pochi locali pubblici mostrano tutti cartelli e scritte in lingua araba. Veniamo a scoprire che, nonostante il brontolio diffuso, in molti si danno da fare per dare una mano, per quanto loro possibile, agli ospiti del centro.
L’altra alternativa per i richiedenti asilo è andare fino a Svilengrad, dove la spesa è più economica, e chi ha un tablet o uno smartphone può cercare notizie e tentare di comunicare con la Siria utilizzando il wi-fi gratuito di qualche bar del centro. Per arrivarci però bisogna fare sei chilometri in una direzione e sei nell’altra. Si va a piedi, oppure ci si organizza per chiamare un taxi, che costa sei leva (3 euro). Una spesa che non tutti possono permettersi.
«Se potete», ci chiede attraverso un interprete improvvisato Doha, circondata dai suoi cinque o sei figli, «dite che ci servono giacche, vestiti pesanti. Siamo venuti dalla Siria con i soli indumenti che portavamo addosso. Qui di notte l’aria è già rigida. E presto arriverà l’inverno».
Vite sospese
«Per chi arriva in Bulgaria in fuga da conflitti e repressione, i problemi principali arrivano dall’ambiguità delle norme, e dall’arbitrarietà della loro applicazione». L’avvocato Valeria Ilareva lavora da dieci anni nel settore dei diritti dei rifugiati e migranti. Ci accoglie nel suo piccolo studio alla periferia di Sofia tra una consultazione legale e l’altra.
«Chi valica il confine in fuga lo fa in modo formalmente illegale. Secondo il diritto internazionale, però, non si possono applicare sanzioni a chi valica i confini statali se in cerca di protezione, che deve essere garantita dal momento in cui questa volontà viene espressa», spiega Ilareva.
In Bulgaria, però, la protezione viene in realtà assicurata solo quando la richiesta di asilo viene registrata dall’Agenzia per i rifugiati. C’è quindi un periodo di vacuum, della durata del tutto imprevedibile e non regolamentata, in cui chi ha presentato domanda (ma non è stato ancora registrato come richiedente asilo) è soggetto all’azione repressiva dello stato.
Lunedì 9 settembre il procuratore generale ha addirittura inviato «rinforzi» alle procure regionali di Haskovo ed Elhovo (le due più interessate dal fenomeno, perché vicino al confine) per sbrigare più in fretta il lavoro. I processi per «attraversamento illegale della frontiera» sono aumentati del 75% rispetto all’anno scorso, soprattutto come effetto dell’arrivo sempre più massiccio di persone in fuga dalla Siria. Al momento, soltanto la procura di Elhovo ne ha impostati ben 117. Tutti provvedimenti che, secondo il Comitato Helsinki bulgaro (BHk), sono semplicemente privi di fondamento.
Secondo Ilyana Savova, direttrice del programma per la difesa legale dei migranti e rifugiati del BHk, «processare richiedenti asilo è contro la legislazione bulgara, non ha alcun effetto preventivo e ha l’unico scopo di alzare in modo artificiale le statistiche sull’efficacia della procura». Solitamente la prima condanna è con la condizionale. Ma in casi di recidiva la punizione diventa effettiva. E chi è arrivato in Bulgaria per cercare salvezza, finisce dietro le sbarre.
La registrazione come richiedente asilo da parte dell’Agenzia per i rifugiati, secondo Ilareva è una procedura poco trasparente e del tutto arbitraria, senza alcuna dimensione temporale definibile. Sempre secondo l’avvocato, in questi anni alcuni richiedenti asilo sono stati espulsi mentre ancora aspettavano l’agognata registrazione (un atto dovuto) da parte dell’Agenzia. «Molti dei miei clienti mi chiedono: quanto manca alla registrazione? E io non so cosa rispondere. Inutile dire che, situazioni del tutto arbitrarie come questa, creano le condizioni ideali per fenomeni di corruzione».
«Qui si aspetta, si aspetta, ma che cosa aspettiamo?», mi aveva detto affranto Yasser passeggiando per le strade deserte di Svilengrad. «Siamo fuggiti da un paese in guerra e senza legge, ma qui dove sono le regole? Se continua così, proverò a tornare in Turchia e poi in Siria. Sì, a casa c’è il rischio di morire in un attimo, con un proiettile in testa. Ma qui mi sento abbandonato da tutto e tutti, senza speranze, senza diritti. È come morire poco a poco, giorno dopo giorno».
* www.balcanicaucaso.org
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