Visioni

Franco Maresco: «Posso considerarmi un fallito di successo»

Franco MarescoFranco Maresco – Foto di Claudia Uzzo

Intervista Il regista palermitano sarà omaggiato alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro con una retrospettiva. Proponiamo un estratto della conversazione dal libro «Ad malora! Opere, cinema e film di Franco Maresco» (Ed. Marsilio), realizzato per l’occasione e a cura di Fulvio Baglivi, sarà presentato al festival il 21 giugno. L’infanzia, le letture, gli autori amati e il jazz, tra scaramanzia e pessimismo

Pubblicato 4 mesi faEdizione del 10 giugno 2024

Ad malora! Opere, cinema e film di Franco Maresco è il libro edito da Marsilio che accompagna l’omaggio pesarese dedicato all’autore di Belluscone. Una storia siciliana e La mafia non è più quella di una volta. Il volume – che sarà presentato venerdì 21 giugno alla Mostra internazionale del Nuovo Cinema, alla presenza del regista – è costruito come un viaggio intorno alla «stella» Maresco, un processo di avvicinamento che sfocia nell’intervista al protagonista, di cui proponiamo qui un estratto, prima di inoltrarsi nella galassia che opera insieme a Maresco sul set e non solo. La ricerca del libro ruota intorno al suo «metodo», un modo di lavorare tra cinema, tv e teatro unico come lo stile, l’estetica e la poetica delle sue opere, sia in coppia con Daniele Ciprì che poi da solo o con Claudia Uzzo. Se ancora fantasmi si aggirano per l’Europa, Franco Maresco è uno di questi, e fa paura, tanta, come dimostra la censura (legale, economica, distributiva, morale) che si accanisce contro di lui da 30 anni, trovando ogni volta l’ostinato rigore, etico ed estetico, di un uomo indisposto ai compromessi e a qualsiasi ipotesi di «ravvedimento».

Questo libro è l’occasione per chiarire finalmente una cosa: la tua data di nascita. Franco Maresco è nato il 24 gennaio e non il 5 maggio 1958, come riporta la carta d’identità.

Ciccio Mira in «Belluscone, una storia siciliana» (2014)

Posso dirti che per più di tre mesi è come se non fossi esistito, non ufficialmente almeno, cioè per l’anagrafe. Il che mi fa pensare che già all’inizio c’era qualcosa in me che non andava (ride). Diciamo che tutto dipende da come ognuno di noi, la mattina, si abbottona la camicia: se sbagli la prima asola poi le sbagli tutte. È una metafora della vita secondo Umberto Saba, poeta che da ragazzo ho molto amato. Aveva ragione lui: tutto dipende da come cominci. Succede anche nella musica… sai quante volte, davanti a me, Steve Lacy ha alzato la mano per dire «rifacciamo!» dopo un attacco? Purtroppo nella vita non si può tornare indietro e «rifare». Ho scoperto di essere nato non il 5 maggio ma il 23 gennaio grazie a mio fratello, che aveva 18 anni più di me. Una sera, in un momento di rara serenità familiare, parlavamo di segni zodiacali e lui, con un sorriso enigmatico e un po’ allusivo, mi disse che il mio era l’Aquario e non il Toro. Non ti nascondo che in un primo momento ci restai male più per il 5 maggio di manzoniana memoria che per la notizia in sé. Suonava bene «nato il 5 maggio». Chiesi a mia madre, che già da tempo soffriva di una depressione pesante, se veramente fossi nato il 23 gennaio, come sosteneva mio fratello. E lei, insofferente e sbrigativa, confermò. Aggiunse solo «agghiurnava ‘u venerdì», cioè che era un venerdì. Fu molti anni dopo, grazie alla passione di Roberta Torre per l’astrologia, che ho scoperto leggendo il libro delle effemeridi di essere nato il 24 gennaio, che quell’anno era, appunto, un venerdì. Mio fratello si era sbagliato. Comunque, se devo dirti la verità, oggi ho dubbi anche su questa data, ma ormai sono rassegnato alla mia precarietà esistenziale… Maggio o agosto, che cambia? Il danno è fatto!

Ti sei dato una spiegazione per questi tre mesi e mezzo di «inesistenza» anagrafica?

Mettiamola così: sono nato in una famiglia un po’ strana. A salvarmi – si fa per dire – sono state le passioni: il cinema, la letteratura, la musica. Ho terminato il liceo con una fatica che non ricordo nemmeno di avere provato per il servizio militare, dove anzi alla fine mi trovai bene. In tutto ciò che ho fatto nella vita, o quasi, sono stato un autodidatta. La cosa paradossale è che da adulto mi sono ritrovato spesso nel ruolo dell’insegnante, e sembra che me la cavassi niente male. Una attitudine, questa, che in seguito ho messo in tanti miei documentari divulgativi, per esempio in Lovano Supreme, il film che ho dedicato al sassofonista siculo-americano Joe Lovano lo scorso anno. Tornando agli anni dell’adolescenza, sentivo un disperato bisogno di conoscenza che nasceva come difesa dai traumi quotidiani. Non posso dire di avere avuto dei veri e propri «maestri» in quel periodo, tranne Don Stefano Schillaci, nella cui edicola di via Villafranca conobbi nel 1974 ‘«u Capitanu», ovvero Francesco Tirone, il ciclista di Cinico Tv, e poi Giovanna Paladino Friscia, nata Pizzuto, figlia del grande scrittore palermitano Antonio, che fu mia insegnante di lettere e che mi spronò a leggere certi autori che mi avrebbero segnato. Una donna molto colta e paziente, ho ancora i sensi di colpa quando ripenso ai pomeriggi in cui la andavo a trovare a casa sua, alla Zisa, e la tormentavo con le mie domande ossessive e logorroiche. Però conservo un ricordo forte di quello che mi raccontava di suo padre, scrittore tra i più grandi del Novecento che intimidiva perfino Montale! Era ancora vivo quando io la frequentavo, ma purtroppo non l’ho mai incontrato perché abitava a Roma.

Che cosa leggevi nelle tue lunghe notti di (già allora) insonne?

Fumetti, scienza, biografie di ogni genere, manuali e dizionari etimologici e di italiano, oltre che i romanzi porno della Olympia press, che avevano un motto pubblicitario assolutamente geniale: i libri che si leggono con una sola mano…

E poi c’erano le grandi letture, i grandi romanzi di cui tante volte mi hai parlato.

Alcuni scrittori mi hanno salvato la vita. Credo di avere letto tutti i romanzi veramente fondamentali, quelli che non puoi non leggere, lo dico senza vanto. A volte era un supplizio arrivare fino alla fine…

Fammi qualche nome e titolo che ti hanno dato la forza per andare avanti, che ti «hanno salvato la vita», come dici tu.

Letizia Battaglia in una scena de «La mafia non è più quella di una volta» (2019)

Intanto devo dire che i primi grandi libri li ho ereditati da mio padre, che era uno istruito e a casa aveva una piccola biblioteca. Per esempio, già a quattordici anni avevo letto Una vita violenta e Ragazzi di vita di Pasolini. Fu Ciro Maresco ad alimentare la mia curiosità per PPP il giorno in cui gli chiesi ingenuamente: chi è l’uomo più intelligente d’Italia?, e lui mi rispose che era Pasolini. Quando scappò con la sua amante, cominciai a leggere tutti i suoi libri, a partire dalla collezione completa di Maigret, quelli della Mondadori con le bellissime copertine di Ferenc Pinter. Simenon è uno dei veri amori della mia vita, leggerlo mi ha fatto sopportare con più forza l’infelicità familiare di quegli anni. Conoscere la sua biografia, il rapporto assurdo con la madre e con le sue donne, il dolore per il suicidio della figlia, è stata una illuminazione, una rivelazione: l’arte e la creatività possono salvarti la vita. Fu sicuramente un uomo pieno di difetti e debolezze, ma come scrittore è stato un vero genio. Pensa che grazie a Simenon (e a John Ford) sono diventato orgoglioso di essere nato sotto il segno dell’Aquario (ride).

Altre letture quali furono?

Camus: L’uomo in rivolta e Lo straniero mi hanno sconvolto la testa, non mi hanno fatto dormire per giorni. Quel pessimismo così feroce e disperato invece che abbattermi mi caricava, mi entusiasmava. E poi sono arrivati «loro», i russi: Gogol, Tolstoj, Cechov e, immenso, Dostoevskij, «il veggente dell’anima» come lo definì magnificamente Thomas Mann. Nessuno come Dostoevskij ha messo insieme l’anelito verso l’assoluto e lo schifo che c’è in ognuno di noi. Quando giravamo Totò che visse due volte la sera rileggevo I Demoni e capitoli dei Fratelli Karamazov, quelli con Ivan. Ma Dostoevskij è anche un grande umorista, da lui ho imparato molto riguardo alla comicità. Un’altra lettura della vita fu, a diciassette anni, Schopenhauer. Ci capii poco e niente, ma rimasi ipnotizzato dalla musicalità del suo pensiero, dal ritmo della sua scrittura, dalla lucidità del suo pessimismo meraviglioso, pieno di vita, se così si può dire. Anacleto Verrecchia, forse il suo più autorevole esegeta, diceva che la lettura di Schopenhauer «disinfetta lo spirito». È vero.

Non mi hai fatto il nome di Céline…

Céline a mio avviso è il Dostoevskij del Novecento, possiede la stessa potenza nel mettere a nudo la merda che c’è in ogni uomo. Ho letto Viaggio al termine della notte nel periodo in cui stavo cominciando il servizio militare, mentre Morte a credito me lo regalò il mio amico Umberto Cantone un paio di anni dopo. In questi due capolavori assoluti non c’è nessuna possibilità di redenzione come succede in Dostoevskij, il disprezzo per l’umanità è impressionante, eppure i romanzi di Céline sono, a mio parere, «necessari». Il politicamente corretto imbecille e ipocrita, ora dominante, probabilmente riuscirà a eliminare Céline dalla circolazione, vedrai. L’ho letto solo tradotto in italiano, ma anche così a diciassette anni avevo capito che ha inventato una lingua tutta sua, inedita e di rara potenza espressiva.

In alcune interviste ti sei definito un «pianista fallito».

Mi sto ricordando che molti anni fa Monicelli mi disse una cosa bellissima e cinica nello stesso tempo, alla sua maniera. Stavamo parlando dei suoi inizi come regista e a un certo punto sbottò: «Guarda, la verità è che quando io cominciai tutti quelli che facevano il cinema venivano da altre esperienze artistiche, erano cioè musicisti, pittori e scrittori falliti. Insomma, per questi qua il cinema fu un ripiego!». Credo che il talento non mi mancasse, ma disgraziatamente ero consapevole di due cose: la prima che la musica era ormai «sfinita», la seconda che il mio DOC costituiva un ostacolo quasi invalidante per studiare con la dedizione necessaria il pianoforte. Per questo mi definisco un pianista fallito.

Che cosa intendi quando dici «la musica era sfinita»?

Che negli anni Settanta il linguaggio della musica, almeno quello occidentale, era stato esplorato in lungo e in largo nel corso del XX secolo, da Schoenberg a Stravinskij e Bartok fino al jazz di Charlie Parker, Miles Davis e John Coltrane. Per non parlare di Cage, Ligeti e compositori simili. Questo almeno era quello che percepivo io, che volevo diventare un pianista di jazz. Diciamo che mi ha fregato la consapevolezza di essere arrivato troppo tardi.

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Questa consapevolezza ce l’hai pure per il cinema?

Certo, ma coerentemente con la teoria di Monicelli che ricordavo prima, fallito nella carriera pianistica ho ripiegato col cinema. Diciamo che tutto sommato posso considerarmi un fallito di successo.

Ma è vero che questa fissazione ce l’avevi pure per i dischi, i libri e i film?

Sì, ma fino ai 35 anni l’ho tenuta a bada riuscendo a gestirla, in seguito, anche con il peggiorare della mia vita privata, le cose si sono di molto complicate. Diciamo che va a periodi. Pensa che la passione per il pianoforte jazz, che comunque in me c’era già, esplose quando vidi in televisione per la prima volta quella meraviglia assoluta che fu Erroll Garner, forse il pianista con lo swing più trascinante e pazzesco che ci sia mai stato, un genio assoluto. Cominciai, quindi, a mettere da parte i pochi soldi di cui potevo disporre per comprare i suoi dischi, il primo fu un 33 giri che si chiamava Deep Purple, titolo che non mi mise subito in allarme… Erano registrazioni degli anni Cinquanta che ascoltavo e riascoltavo appena potevo restare solo in casa e poi provavo a rifare al pianoforte. All’entusiasmo ben presto subentrò il dubbio angosciante che Erroll Garner mi portasse sfortuna, che quando lo ascoltavo o peggio, lo suonavo, le tensioni della famiglia precipitassero, diventassero più drammatiche. Io perseveravo, ovviamente, il piacere che mi dava era insostituibile, così comprai il secondo disco, che stavolta era dei primi anni Settanta e con una formazione più allargata rispetto al solito trio. La copertina era tutta a colori e raffigurava Garner con un maglione larghissimo del colore più viola che avessi mai visto! Mi imposi che non dovevo cedere alla superstizione patologica dovuta alla nevrosi ossessiva e continuai ad ascoltarlo con lo stesso entusiasmo di sempre. Non ci crederai, ma una settimana dopo mio fratello finì all’ospedale per una grave ferita al polso dovuta alla rottura di una bottiglia che aveva sbattuto violentemente sulla tavola durante un litigio in famiglia. Io non c’ero, ricordo che era una domenica, quando tornai a casa non c’era nessuno, ma trovai tutto sottosopra e sangue dappertutto. Mi precipitai giù per le scale dove fortunatamente mi fermò un vicino di casa che mi rassicurò. In appena due minuti ho vissuto la tragedia che presagivo fin da bambino, l’omicidio nella mia famiglia. Così non fu, ma per lo shock da allora non ho più ascoltato uno degli idoli della mia vita. E potrei farti altri nomi che ho cancellato dalla mia discografia, o che ascolto «al bisogno», quando non ce la faccio a rinunciarvi e allora devo ricorrere a specifici rituali scaramantici. Sì, lo so, la definizione giusta è «una vita di merda».

Questi rituali ce li avevi pure come spettatore di cinema?

Fortunatamente non in quel periodo, semmai molti anni dopo, ma non li definirei invalidanti. Negli anni Settanta andavo al cinema ogni giorno, quasi sempre da solo, come piace a me. Mi ero fatto un po’ di amici tra bigliettai, proiezionisti e maschere e questo mi ha permesso di vedere tutto quello che dovevo vedere. Quel decennio fu straordinario perché potevi scoprire contemporaneamente la forza innovativa e dinamitarda del nuovo cinema americano insieme agli ultimi colpi d’ala dei grandi maestri, gente come Orson Welles, John Huston, Hitchcock, Billy Wilder, Kazan… Ma ci pensi che vuol dire avere visto ancora vivi attori come James Cagney, Joseph Cotton, William Holden, John Wayne e James Stewart?

Per non parlare di un mio mito assoluto, Robert Mitchum, che vidi a metà anni Settanta nel ruolo di Philip Marlowe in Marlowe poliziotto privato (Farewell, My Lovely, 1975), film crepuscolare in cui lui è inarrivabile, con quella faccia triste e cinica insieme, stanca e rassegnata all’idea che un mondo è finito per sempre. In più mi entusiasmava la sua ironia, la battuta folgorante, insomma il Titanic che affonda e l’orchestrina che continua a suonare, metafora forse abusata ma che riassume efficacemente la visione, lo spirito che ho cercato in seguito di mettere nel mio cinema. Non ti nascondo che certe volte mi sento in colpa nei confronti dell’altro mio idolo, Bogart, quando preferisco a lui Mitchum nella parte di Philip Marlowe, anche se Il Grande sonno (The Big Sleep, 1946) non si tocca! Ovviamente, di quel periodo mi sto riferendo solo agli americani perché, come sai, sono un «americanista» in fatto di cinema e jazz, ma anche nel resto del mondo in quel periodo c’erano «ultimi fuochi» di immensa grandezza.

Eppure in altre conversazioni mi hai detto che ci sono film realizzati dopo i Settanta che ti sono piaciuti molto, a cominciare da Scorsese che tu e Ciprì avete amato fin dai primi lavori fatti in coppia.

Confermo quello che ti ho sempre detto, mi pare ovvio che ci siano stati film straordinari e registi di valore, per esempio il grande Kitano e Kaurismaki, ma si tratta sempre, a mio parere, di «tributi e omaggi» al passato dove il sentimento nostalgico è fortemente presente, a prescindere che i loro autori ne siano più o meno consapevoli. Dagli anni Ottanta comincia a prevalere il cinema «per adolescenti» come giustamente lo definì Woody Allen riferendosi agli effetti speciali e alla computer graphics, magari di qualità alla Spielberg, ma che era ineludibile arrivasse al «niente» contemporaneo dove tutti sono autori grazie alla tecnologia che li autorizza a non sapere fare niente. Mi dispiace, ma per me il cinema è (era) un’altra cosa.

Mi piacerebbe, allora, che dessi la tua definizione di cinema.

Guarda, potrei risponderti con la stessa definizione che tanti anni fa mi diede Sergio Citti quando gli posi la medesima domanda: «Il cinema è quel posto dove tu vai, paghi il biglietto e un tipo te lo strappa». Senza scostarmi troppo dall’essenzialità del mio amico Sergio, ti dico che il cinema è quel posto dove alcune centinaia di persone stanno sedute guardando le immagini che un fascio di luce, proveniente dalle loro spalle, proietta su un grande schermo bidimensionale posto davanti a loro. Essi seguono con passione, emozione, oppure noia, una storia che ha immaginato un signore che si chiama «regista», alla fine spuntano i titoli di coda e il pubblico torna a casa, contento o schifato poco importa. Il regista era dunque artefice, ma anche «mediatore» tra il pubblico e quell’«altro» mondo che è il film. Tutto questo rituale è finito, soprattutto il ruolo di «mediatore» del regista non ha più nessun senso nell’epoca della produzione digitale e dell’intelligenza artificiale. Come sai meglio di me, almeno i due terzi degli otto miliardi di abitanti del pianeta sono artisti, cioè «creativi», musicisti, scrittori, pittori, e, appunto, «registi». Di che si sta parlando?

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