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Formazione (giovanile a Napoli)

Formazione (giovanile a Napoli)

In una parola La rubrica settimanale a cura di Alberto Leiss

Pubblicato quasi 7 anni faEdizione del 9 gennaio 2018

I media nazionali l’hanno già dimenticato, ma sul Mattino di ieri campeggiava ancora la storia del ragazzino accoltellato tre settimane fa da un «branco» di minorenni come lui, nel centro storico di Napoli. I suoi aggressori si sono accaniti con molti colpi, solo per un caso è sopravvissuto.

In città il fatto – ultimo di una infinita serie di violenze agite e spesso subite da giovanissimi maschi – ha fatto scalpore: il cardinale Sepe è andato a trovarlo in ospedale, e poco dopo il ragazzo è stato dimesso. Solo due giovani sono sospettati di aver partecipato all’aggressione, uno, in carcere, è ritenuto il “capo”.

Gli altri – erano in quattro – rischia di ritrovarseli nuovamente davanti all’uscita da scuola o nelle strade del quartiere.

Ho letto solo ieri alcuni articoli su questa vicenda, e mentirei se dicessi di aver capito che cosa può aver spinto la violenza tanto efferata degli accoltellatori. Un servizio in cronaca parla di una «normale» presenza di «degrado, furti e teppismo» nel quartiere, dove però «non c’è omertà».

C’è stata infatti una manifestazione abbastanza seguita in segno di solidarietà con la vittima e per condannare il gesto e il clima in cui avviene. Le persone intervistate dal Mattino escludono che c’entri la camorra: si parla di un isolamento sociale che motiva l’aggressività giovanile, e di «muschilli impazziti». La follia dei «moscerini» contribuisce però a creare una specie di «inferno» urbano.

Una analisi sulla violenza endemica a Napoli è in un commento di Isaia Sales (sempre sul Mattino di ieri): al completo fallimento dello stato e del mercato nell’includere le giovani persone degli strati sociali più poveri, si sostituisce il facile arricchimento offerto dalla dilagante economia della droga.

Qualcosa di molto diverso dalle vecchie forme di microcriminalità – chi non ricorda i banchetti con le sigarette di contrabbando smerciate da Sophia Loren in Ieri, oggi, domani? – che consentivano la sopravvivenza ai sottoproletari urbani.

Oggi, grazie al business droga, a migliaia «arrivano al benessere e spesso alla ricchezza senza passare per la scuola e il lavoro, senza studiare o imparare mestieri». Condizione che ben difficilmente intendono poi abbandonare, anche a rischio della vita. È un particolare «modello» di formazione per gli intraprendenti «muschilli».

Non ho letto considerazioni sul fatto che di giovani maschi – per lo più – si tratta. Cosa che potrebbe suscitare altri interrogativi e riflessioni.

Sembra che l’esperienza di una qualche forma di violenza o comunque di teso agonismo sia necessaria nella formazione di noi uomini. Basti pensare all’importanza dello sport, praticato o almeno vissuto con appassionato tifo. E alla facilità con cui ai riconoscimenti identitari e comunitari (gruppi politici, bande di strada ecc.) si accompagnino forme di violenza più o meno «disciplinata».

Un filosofo “comunista” come Alain Badiou, esaminando il disagio sociale nelle banlieue che produce anche il terrorismo individuale, critica l’eliminazione del servizio militare obbligatorio maschile. Una forma appunto disciplinatrice della violenza.

Lo psicanalista e pediatra Donald Winnicot ha osservato che i riti di iniziazione violenti in molte culture sono forse spiegabili con una sorta di «invidia» originaria maschile per la procreazione femminile, anche dal punto di vista del rischio della vita che le donne vi corrono.

Battersi in duello e sottoporsi a prove potenzialmente letali è un modo di non essere da meno.

Ci vorrebbe una formazione più consapevole di questa differenza?

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