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Fine vita: per un cambio di prospettiva

Fine vita: per un cambio di prospettivaMartin Kippenberger, «Senza titolo» (dalla serie La zattera della Medusa), 1996

Anticipazione Al festival della cura l'intervento su «Il buon uso della fine»: ad Ancona dal 14 ottobre 2022

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 8 ottobre 2022

Il titolo parafrasa quello del libro di Pierre Fédida Il buon uso della depressione, tre aspetti del quale incrociano i nostri. Il primo è il legame tra depressione e morte, gli altri due sono l’incidenza del tempo, necessità di darsi tempo, che apre la depressione a un suo peculiare aspetto di creatività.

Ho pensato al caso singolare in cui un artista viene a sapere di dover morire a breve, per una malattia diagnosticata incurabile. Che cosa fare quando la morte si prospetta imminente? La situazione è tragica, vi può prendere il sopravvento la depressione, appunto, o la fuga. Per altri è invece una sfida diretta con la morte. Non si tratta tanto del cosiddetto «stile tardo», come l’ha chiamato Edward W. Said, pur se ne riprende i caratteri di «intempestività» e di «anacronismo», ma con un vero e proprio cambio di prospettiva. In questa condizione si guarda da un altro punto, già da un dopo, da un al di là della morte stessa, da una sorta di «postumità», una lotta con la morte in un groviglio di possibilità e impossibilità e un tentativo di scavalcamento attraverso un nodo temporale in cui presente, passato e futuro si intrecciano.
I due casi che sottopongo sono diversissimi, come le due versioni della questione.

Il primo è quello di Hans Hartung, che entra in coma nel dicembre 1986, a ottantadue anni, per un problema cardiovascolare cerebrale e ne esce fortemente segnato, fisicamente costretto sulla sedia a rotelle – morirà dopo tre anni. Lungi dal farsi inibire dalle difficoltà motorie, torna in studio e si inventa degli strumenti ad hoc e relative modalità pittoriche. Il risultato è una serie di opere del tutto diverse dalle precedenti e tanto libere e scomposte da aver lasciato basiti e perplessi i primi commentatori.

Hartung sembra liberato ma concentratissimo, «impazzito» nel senso di senza più freni inibitori né scrupoli estetici: schizzi, sgocciolature, strisciate non solo dominano le superfici, ma talvolta le ricoprono per intero senza intervento compositivo. È il compimento e insieme la negazione dell’Informale, di cui è stato un precursore. Il sapere di essere alla fine è in lui una sorta di irruzione di reale che prende il sopravvento, e al tempo stesso è come se l’artista vedesse le opere già da dopo la realizzazione in sé, dunque si precipitasse con furia a finirle, ognuna ultima.

Il secondo caso è quello di Martin Kippenberger, di due generazioni posteriore, che mette in atto una vera e propria strategia ad hoc.

Agli inizi del 1996, a soli quarantatré anni, l’artista scopre di avere un cancro che lo ucciderà il 7 marzo dell’anno seguente. Durante l’estate di quell’anno progetta le ultime due serie di dipinti, entrambe con il tema della morte al centro.

La prima ruota intorno alla Zattera della Medusa, il capolavoro di Théodore Géricault del 1819. Kippenberger posa nella parte di tutti i personaggi del dipinto originale. La serie converge poi in un grande quadro che ricompone la scena per intero, con tutti i personaggi sopra il cui ammasso, sospeso in alto, senza precisa identificazione da dove esca, una nuvoletta da fumetto riporta: «Je suis Méduse» (Io sono Medusa). «Chi parla esattamente?», chiede giustamente Ann Temkin (in Odile Burluraux, Deadline, Musée d’art moderne de la Ville, Parigi 2009). «Il quadro? Il pittore? L’iscrizione sottolinea una confusione inestricabile tra l’attore e l’agito, tra il pittore e il dipinto» – che si aggiunge e intreccia a quella tra autore e modello, e tra ruolo di artista e condizione personale, essendo lui realmente in procinto di morire come le figure rappresentate. Ma che morte è questa, presa tra la storia e il presente?

La risposta sta nella seconda serie intitolata Jacqueline: The Paintings Pablo Couldn’t Paint Anymore. Si tratta di un gruppo di ritratti di Jacqueline che Picasso, come dice il titolo, non poté e non potrà mai più dipingere. Questa volta Kippenberger non rifà l’opera di un altro, bensì la prosegue, ponendosi come sua postumità. Ma non solo Picasso è morto, bensì anche Jacqueline. Kippenberger annoda di nuovo le morti altrui alla propria ma con una variante decisiva. Su ogni quadro scrive le iniziali «J. P.», che stanno naturalmente per Jacqueline Picasso, ma si tratta del titolo o della firma? Jacqueline è qui modella e anche autrice? Autoritratto dunque? Sì, ma anche in altro modo e senso, come scrive Temkin: «è Jacqueline che, avendo deciso di dipingere anche lei, fa il lavoro di Picasso al posto suo, o forse per realizzare il ritratto di Martin en travesti?»

Kippenberger è morto e vivo al tempo stesso, non ancora e insieme già non più morto. Parafrasando Jacques Lacan, potremmo sintetizzare questo gioco di specchi come una sorta di stade du mourir, un singolare intreccio che fa dell’opera ultima un peculiare nodo tra la propria vita e la propria morte, una strategia di postumità.

* Elio Grazioli è un critico d’arte contemporanea, il 15 ottobre sarà in dialogo con il filosofo Riccardo Panattoni, alla Mole Vanvitelliana di Ancona, nell’ambito di Kum!

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