Finanzcapitalismo e rialzo dei tassi, politica sconsiderata
Banche in crisi In questi giorni stiamo di nuovo assistendo al manifestarsi di un “effetto farfalla” nel mondo finanziario, quello per cui un battito d’ali di un gentile lepidottero può provocare un uragano […]
Banche in crisi In questi giorni stiamo di nuovo assistendo al manifestarsi di un “effetto farfalla” nel mondo finanziario, quello per cui un battito d’ali di un gentile lepidottero può provocare un uragano […]
In questi giorni stiamo di nuovo assistendo al manifestarsi di un “effetto farfalla” nel mondo finanziario, quello per cui un battito d’ali di un gentile lepidottero può provocare un uragano dall’altra parte del mondo. Tale è il dilagare da un continente all’altro di una pericolosa tempesta innestata dal crollo della Silicon Valley Bank (Svb) e della Signature Bank, che non si limita ad affossare i listini azionari delle principali Borse, ma provoca il crollo di istituti finanziari.
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Mercati ko, c’era una volta Credit SuisseUn “domino” bancario che supera in un attimo i confini degli Usa per portarsi in primo luogo in Europa, ove ne fa le spese la filiale inglese della Svb americana, nel frattempo divenuta autonoma, comprata, per evitare guai maggiori da Hsbc alla cifra simbolica di una sterlina; segue il tonfo di Credit Suisse, il secondo istituto elvetico, che ha visto le sue azioni scendere sotto i 2 franchi, il 70% in meno rispetto all’anno scorso; mentre si considerano inevitabili, seppure non ancora quantificabili, gli effetti che il crack della Svb avrà in Cina, visto che Svb aveva siglato qualche anno fa una joint venture con la Shanghai Pudong Development Bank, tra le prime dieci banche statali commerciali del paese, e che molte start up cinesi operavano con conti Svb.
Eppure la maggior parte dei commentatori in queste ore insistono sulle peculiarità della Svb che ne farebbero un caso speciale. Intendiamoci, l’analisi concreta della situazione concreta è un principio cui dovremmo sempre attenerci. Per cui le diversità tra un caso e l’altro vanno sempre tenute ben presenti. Il fatto che la Svb operasse soprattutto nei confronti di settori “volatili” come quello tecnologico e delle start up, con tutto ciò che ne consegue per quanto riguarda la gestione del rischio, o che la Signature Bank fosse legata all’oscuro mondo delle infide criptovalute – anche se dovrebbe inquietare di più la crescente area dello shadow banking, quel mondo popolato da fondi e società che svolgono attività bancarie senza rispondere a specifiche normative – sono elementi da indagare per capire le cause del crack. Ma queste non sono bastate a porre recinti invalicabili. Anzi.
Le interconnessioni del sistema bancario mondiale, per quanto e proprio perché non regolate, hanno avuto il sopravvento. Le ragioni di fondo, oltre che nella precipua instabilità del finanzcapitalismo, risiedono nella sconsiderata politica del rialzo dei tassi nel tentativo di combattere l’inflazione. Il che dimostra come non si possa passare col semplice volontarismo decisionista da un sistema a tassi zero o negativi, che ha retto le sorti del capitalismo mondiale per diversi anni, ad uno in cui si procede, annuncio per annuncio, a un incremento degli stessi da parte delle banche centrali a colpi di mezzo punto per volta. Tanto è vero che l’annunciato incremento dello 0,50 sia della Fed che della Bce pare venire messo in dubbio in queste ore. Certamente le autorità americane hanno agito con maggiore tempestività di fronte al crollo della Svb, di quanto non fecero ai tempi della Lehman Brothers. Ma pur sempre a falla aperta. Solo il 7 marzo scorso Jay Powell, presidente della Fed, di fronte al Senato puntava l’indice solo contro l’inflazione, come se il riempirsi di titoli di Stato da parte delle banche non costituisse allarme a fronte di un innalzamento dei tassi, come se l’allentamento delle regole sulle piccole banche, voluto da Trump, e non solo, nel 2018 non fosse di per sé una mina vagante pronta a scoppiare alla prima occasione. Ovvero la storia è un’ottima maestra ma non ha scolari.
Tanto più che l’inflazione non segnala apprezzabili diminuzioni. Pur con differenze, né negli Usa né nella Ue. Infatti la sua persistenza, definita “appiccicosa”, viene utilizzata come una clava contro l’eventuale incremento dei salari, di cui naturalmente nel nostro paese non vi è traccia. Lo spettro della stagflazione torna a materializzarsi: crescita stagnante, se non recessione, con inflazione sostenuta. Secondo Nouriel Roubini – chiamato Mr Doom (profeta di sventure) semplicemente perché, a differenza della maggioranza degli economisti che le previsioni le fanno sul passato, aveva previsto la Grande recessione del 2008-2009 – siamo di nuovo in uno scenario catastrofico, ce lo spiega nel suo ultimo libro, in cui la recessione, lo dimostrerebbero le curve invertite dei rendimenti dei titoli di stato, potrebbe giungere ben prima della discesa dell’inflazione al 2%.
Intanto la Ue non riesce a trovare la quadra sulla riforma del patto di stabilità. La Germania non è convinta della gradualità della riduzione del debito, come si apprende dalla riunione dell’Ecofin e nega che vi sia stata già una intesa. Le proposte di riforma finora conosciute si basavano sulla possibilità di contrattare percorsi diversi da parte dei singoli paesi, se tale flessibilità viene negata si torna al punto di partenza. Come ha dichiarato il ministro delle Finanze tedesco Christian Lindner «non c’è alcuna carta bianca, bensì la necessità di ulteriori profonde discussioni tecniche». Solo che la crisi, per non parlare della guerra, non aspettano.
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