Mercati ko, c’era una volta Credit Suisse
Economia Il contagio bancario è arrivato, dopo il crollo "new economy" di Svb tracolla il venerando istituto svizzero. Mollato dai padroni sauditi. La triste parabola di un’istituzione nata nel 1856 per finanziare i treni e finita a speculare
Economia Il contagio bancario è arrivato, dopo il crollo "new economy" di Svb tracolla il venerando istituto svizzero. Mollato dai padroni sauditi. La triste parabola di un’istituzione nata nel 1856 per finanziare i treni e finita a speculare
Dopo il rimbalzo di martedì, borse di nuovo al tappeto nella giornata di ieri. A tirarle giù i titoli bancari, che hanno risentito del disastro Credit Suisse. Malissimo Milano, che ha perso il 4,6%. Della situazione difficile dell’istituto elvetico si parlava già da giorni, in concomitanza con le notizie che arrivavano da oltreoceano. È stato però il rifiuto del suo principale azionista, la saudita Saudi National Bank (Snb), a fornirle ulteriore liquidità che ha fatto precipitare la situazione. Il titolo crolla del 30% a 1,59 franchi (mai così in basso), schizzano in alto, fino alla soglia critica dei mille punti, i certificati di assicurazione sull’insolvenza (credit default swap) della banca. È il segnale che il mercato non crede più nella capacità di resilienza dell’istituto. Che farà la Banca Nazionale Svizzera? Credit Suisse è considerata una banca too big to fail (troppo grande per lasciarla fallire). E da qui bisognerà partire prima di prendere qualsiasi decisione.
IL CASO DI QUESTA BANCA, a ben vedere, è lo specchio dei cambiamenti intervenuti nel sistema capitalistico. Grandi trasformazioni che non si sono limitate a modificare in profondità processi riproduttivi e «rapporti di produzione», ma hanno anche capovolto la relazione funzionale tra produzione e sfera finanziaria. Quella che Marx, nel secondo libro della sua opera più importante, aveva definito la «vertigine del capitale», ovvero la tendenza a voler «far denaro senza la mediazione del processo di produzione», da fenomeno «ciclico» è diventata la vera essenza del capitalismo contemporaneo.
CREDIT SUISSE viene fondata nel 1856 da Alfred Escher, politico e dirigente d’azienda, per finanziare lo sviluppo delle ferrovie svizzere. C’è il legame diretto con la produzione, ma anche quello tra credito e politiche pubbliche per l’ammodernamento del paese. Una missione «nazionale», si potrebbe dire. Oggi parliamo invece di una banca globale, con un profilo speculativo molto marcato. Che di «svizzero» mantiene (quasi) solo il nome. Il socio principale, come si è visto, è la Saudi National Bank (10%), seguono il fondo sovrano qatariota Qatar Holding, il fondo americano Dodge & Cox, l’impresa multinazionale del saudita Suliman Saleh Olayan (Olayan Group), la società di investimento di Chicago Harris Associated, il colosso statunitense BlackRock e la società Silcehester International basata a Londra.
NEGLI ULTIMI ANNI, l’istituto ha privilegiato le attività di investment banking a scapito dei servizi e del private banking più in generale. Investimenti ad alto rischio – alcuni dei quali costati miliardi di euro ai clienti, come quelli nella società finanziaria britannica Greensill Capital e nella statunitense Archegos Capital Management, poi crollate nel 2021 – che nel corso di un decennio hanno minato la solidità del suo bilancio. Fino al buco di 7,3 miliardi di franchi dichiarato a chiusura dell’esercizio 2022. Il motivo per cui alcuni analisti hanno parlato di una «cultura del rischio autodistruttiva».
RICERCA DEL PROFITTO ad ogni costo, non badando ai segnali di pericolo – più di cento secondo l’autorità di vigilanza elvetica – che già da alcuni anni giungevano al suo management. In mezzo, una serie di scandali che hanno pregiudicato non poco la credibilità della banca. Il caso di spionaggio a danno di un collaboratore; la condanna in sede penale per una storia di riciclaggio di denaro derivante dal traffico di droga; l’inchiesta «Suisse Secrets», condotta da oltre 160 giornalisti di 39 paesi, nella quale si parla di una serie di clienti accusati di violare i diritti umani o sotto sanzioni internazionali; la storia dei prestiti al Mozambico, che dovevano servire per comprare navi della guardia costiera e una flotta per la pesca del tonno, poi finiti in un traffico d’armi e nelle maglie della corruzione. D’altra parte, parliamo della stessa banca dove trovarono «riparo» le ricchezze che i nazisti scappati in Argentina avevano sottratto agli ebrei fino all’epilogo del Terzo Reich nel 1945.
TORNANDO AD OGGI, va detto che il disastro di Credit Suisse può costituire un problema per l’intero settore bancario dell’Unione. C’è un concreto rischio di contagio. Non a caso la Bce sta chiedendo a tutte le banche europee di comunicare la loro esposizione nei confronti dell’istituto elvetico. E la stessa cosa sta facendo il Tesoro Usa per quelle americane. Ma il problema non è soltanto di esposizione diretta con il «malato svizzero». Stando ai dati dell’Autorità bancaria europea (Eba), le banche Ue hanno in pancia oltre 3mila miliardi di euro di titoli di stato. Titoli il cui valore adesso è sceso per effetto del rialzo dei tassi d’interesse. Buchi di bilancio potenziali. Che con un decorso infausto della crisi di Credit Suisse potrebbero tramutarsi in gigantesche voragini. Ne terrà conto oggi il board di Francoforte?
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