Il primo femminicidio del nuovo anno rivela alcune criticità nel sistema dei controlli sui legali detentori di armi che – seppur note da tempo – si protraggono nella generale disattenzione dell’opinione pubblica ed in particolare delle rappresentanze politiche.

I FATTI, INNANZITUTTO. Mercoledì scorso a Genova, una guardia giurata di 32 anni, Andrea Incorvaia, ha ucciso con un colpo di pistola la fidanzata 23enne, Giulia Donato e poi si è tolto la vita sparandosi. L’omicidio è avvenuto nell’appartamento della giovane, i due non convivevano: Incorvaia avrebbe sparato alla fidanzata mentre dormiva utilizzando l’arma di servizio, una pistola semiautomatica. Secondo le prime indagini, i due giovani si frequentavano da circa un anno, ma di recente le liti erano continue e la giovane avrebbe manifestato alle amiche l’intenzione di lasciare il fidanzato a causa del controllo morboso, quasi maniacale, nei propri confronti. Non vi sarebbe stata però nessuna denuncia da parte della giovane donna.

SONO ELEMENTI, PURTROPPO, ricorrenti in molti femminicidi. Ma questo caso rivela anche altre criticità: Incorvaia aveva intrapreso un percorso terapeutico per uno stato depressivo e gli inquirenti stanno indagando se l’azienda per cui lavorava, la Cooperativa Guardiani Giurati Lubrani, ne fosse a conoscenza.

AL DI LÀ DEL CASO SPECIFICO, è importante concentrare l’attenzione su tre elementi che manifestano tre problematiche rilevanti: l’autore del femminicidio è un legale detentore di armi, una guardia giurata; l’arma utilizzata è la pistola di servizio in suo possesso per lavoro; il detentore dell’arma era in cura per uno stato depressivo, ma i datori di lavoro probabilmente ne erano all’oscuro.

IL NUMERO DI FEMMINICIDI e omicidi familiari o relazionali commessi da guardie giurate è, nel complesso, relativamente basso: si tratta di uno o due casi all’anno. Un valore che però diventa consistente se si tiene conto che i detentori di licenza per armi tra le guardie giurate non superano le 40mila unità: l’ultima tabella della Polizia di Stato riporta per l’anno 2022, un numero di 34.862 guardie giurate con porto d’armi in corso di validità. Ciò significa che, mediamente, il tasso di omicidi delle guardie giurate (tra il 2,50 e il 5,00 su 100mila detentori di armi con questa licenza) è quattro volte maggiore rispetto al tasso di omicidi della popolazione italiana (0,52 su 100mila abitanti).

E’ UNA TENDENZA che riguarda, seppur in misura minore, anche gli altri detentori di licenza per armi. Dalla comparazione tra i dati diffusi dalla Polizia criminale e quelli presenti nel database dell’Osservatorio OPAL relativi a gli omicidi con armi legalmente detenute per l’anno 2022 si evince, infatti, che il tasso di omicidi con armi legalmente detenute è dello 0,75 su 100mila legali detentori, anche questo molto superiore alla media nazionale degli omicidi volontari che, come detto, si attesta a 0,52 su 100mila abitanti.

QUESTI DATI DOVREBBERO portare ad una riflessione su una questione centrale. Nelle situazioni di conflitti di coppia il possesso, ancorché legale, di un’arma costituisce una tentazione ad usarla. Il divorzio e la separazione è, infatti, una fase particolarmente critica che – come notano gli esperti – spesso genera crisi di identità, soprattutto negli uomini, che possono facilmente sfociare in episodi di violenza nei confronti della donna. In mancanza di una segnalazione o di una denuncia, le forze di pubblica sicurezza raramente procedono ad un ritiro cautelativo delle armi. Ma – ed è qui il punto – in questi casi, il possesso di un’arma non è fattore secondario o marginale: un’arma nelle mani di un uomo in crisi d’identità, frustrato o depresso rappresenta un elemento psicologico di particolare rilevanza nell’ideazione e nella progettazione di un’azione delittuosa nei confronti della moglie, della partner o della fidanzata. Ciò dovrebbe indurre a maggiori controlli, per lo meno annuali, sullo stato psicologico di chi detiene delle armi: per le guardie giurate il rinnovo del certificato anamnestico è invece previsto ogni due anni mentre le altre licenze, tranne il porto d’armi per difesa personale, è obbligatorio solo ogni cinque anni. E non sono richiesti, di norma, controlli specialistici né sullo stato di salute mentale e nemmeno controlli clinici riguardo all’uso di sostanze stupefacenti, psicotrope o di medicinali per la cura di stati depressivi.

COME HO SCRITTO ripetutamente su questo giornale, il femminicidio è un problema che va contrastato con l’educazione, sradicando la cultura patriarcale del dominio dell’uomo sulla donna. Ma richiede anche provvedimenti urgenti per limitare il possesso delle armi, norme più rigorose sul rilascio delle licenze e controlli più frequenti e accurati sui legali detentori di armi. Non è più accettabile che l’arma detenuta per lavoro, per “uso sportivo”, per la caccia o col pretesto della legittima difesa divenga lo strumento privilegiato per l’illegittima offesa: l’omicidio di una donna.

*Osservatorio permanente sulle armi leggere e le politiche di sicurezza e difesa (Opal)