A prescindere dell’orientamento estetico dei vari autori, nella letteratura nazionale argentina tutto ciò che gira intorno al paesaggio della pampa sembra non esaurirsi mai. Dal XIX al XXI secolo, da Sarmiento a Mármol, la pampa si estende di pagina in pagina, corre lungo i secoli con la continuità di una staffetta, senza temere ostacoli alla sua vastità. È un «illimitato orizzonte» per Esteban Echeverría, un «deserto infinito» capace di forgiare il carattere del gaucho per José Hernández; nella sua monotonia cromatica si colora di grigio secondo Ricardo Piglia e delle varie tonalità del marrone fra le pagine di Manuel Puig. Studiata da mille prospettive, secondo la percezione plurisensoriale della geografia umanistica e in qualità di frontiera interna, la interminabile poetica cui dà luogo la pampa è capace di offrirsi vergine a chi decida, ancora oggi, di tornare a scriverne.
Per Federico Falco, la sua orizzontalità – dalla quale, a meno di porsi a una determinata altezza, neppure con lo sguardo si raggiungono i vicini – è il luogo «niente affatto bucolico» dove siamo perduti.

Autoisolamento curativo
Nel suo Le pianure (traduzione di Maria Nicola, Sur, pp. 237, € 17,00) racconta della separazione che il protagonista di nome Fede, scrittore di mestiere, deve affrontare dal compagno Ciro, dopo una lunga relazione. Per comprendere le ragioni dell’abbandono e ricostruire la sua vita, Fede lascia la città e decide di affittare una casa nel campo – «un posto dove passare il tempo e ricominciare» – prendendosi cura di un orto e di un allevamento di galline. Riduce all’osso i contatti, rinuncia ai vincoli: «Alcuni, quando la loro vita va in pezzi, tornano alla casa dei genitori. Altri non hanno dove tornare. Io sono tornato alla campagna».

L’autoesilio a Zapiola, il paesino sperduto in mezzo alla pampa, è occupato dagli unici compagni di solitudine che ha caricato in macchina: i libri. Li sistema nella seconda stanza della casa, quella che riceve il sole dal primo pomeriggio fino al tramonto e in cui dovrebbe scrivere, e dialoga con loro nel silenzio del suo eremitaggio. Leggere, camminare e prendersi cura dell’orto scandiscono la giornata come pratiche irrinunciabili. A Fede piace il lavoro nell’orto perché «si tratta solo di fare e fare», nessuna costrizione al pensiero, come invece comporta il mestiere di scrittore. Approfittando del fatto che «in certi momenti la finzione è l’unica maniera di pensare il vero», Le pianure offre anche una riflessione sullo scrivere come forma di abitare il mondo. Proprio nel dare un nome alle cose – «se non le nominiamo, non esistono» – si colonizza il paesaggio: breve illusione, tuttavia, questa di un «(falso) senso di proprietà», perché è la stessa inafferrabile estensione della pampa a impedirne l’addomesticamento verbale, come fosse qualcosa di intraducibile. Quando la trama si sfilaccia, e diventa impossibile affidarsi alle strutture del racconto – «è come se nel tempo del lutto non ci fosse narrazione» – il letargo emotivo di Fede si trasforma in una crisi della scrittura: «Se smetto di scrivere, che cosa succede? Se smetto di scrivere, che cosa sono?».

L’ambientazione di Le pianure – primo romanzo di Federico Falco, già noto al pubblico italiano per i suoi racconti antologizzati da Sur in Silvi e la notte oscura – non è casuale: l’autore vive a Buenos Aires ma è nato a General Cabrera, una cittadina della pianura cordobesa più volte citata nel libro: «È il paesaggio in cui sono nato, in cui ho vissuto fino ai venti anni, quello in cui vive la mia famiglia e molti dei miei amici». L’appartenenza al luogo e al suo lessico si respira tra le pagine anche grazie alle scelte della traduttrice Maria Nicola che, come spiega in una stimolante nota finale, desiderava preservare il carattere quotidiano di certe «presenze».

Il llano, ovvero la pianura, è lo spazio ideale per attivare la memoria, che attinge alla meraviglia suscitata da qualche vecchia fotografia capace di trasportare chi la osserva verso «un’altra terra, un altro mondo, un altro universo». Fede ripercorre la storia dei familiari arrivati all’inizio del XX secolo dal Piemonte in terra di Argentina per scampare alla miseria o alla morte e fondare un piccolo regno. Celebra la loro capacità di costruire da zero una nuova vita mentre ricorda come la lingua di famiglia, il piemontese, si usasse per parlare di questioni di adulti, quando non volevano che lui capisse: «Non ero curioso dei loro discorsi, non li ascoltavo nemmeno. Quando passavano al piemontese me ne stavo tranquillo, zitto, a tagliare il pollo».

Vibrante immobilità
L’intero romanzo è costruito attorno a quel senso di levigatezza che comunicano le superfici piane e un’aria così immobile da far vibrare il lettore. Il paesaggio sta «tutto all’interno di una griglia», persino le galline mansuete «si appiattiscono a terra». Anche allo scorrere del tempo si comunica la piattezza del paesaggio, permettendo di sentire «con i polpastrelli i chicchi di granturco spezzati, gli insetti e i sassolini, tutto il loro pasto mattutino». Le pianure si apre a gennaio e scandisce in capitoli i seguenti nove mesi, lunghi come una gravidanza da cui si esce trasformati, per «poi tornare a sceglierci in un modo più sano, più luminoso, in un modo nuovo». Un universo «di cose quiete» mosso dal vento che dal nulla può sollevarsi gelido e soffiare per tutta la notte, come una tenuta di suono in una partitura musicale che riporti la voce della pampa.

A sottolineare che «raccontare una storia cambia chi la racconta», il romanzo è scritto in prima persona, esigente e senza riparo, come la pianura: «Alcuni possono affacciarsi sul vuoto. Ad altri dà le vertigini». La sua stesura, che non sembra avere conosciuto la fretta, ci riconcilia con quel senso di intimità e con il bisogno di raccoglimento che sorgono dall’abbandono, senza tuttavia mettere in dubbio la possibilità di sanare il dolore.