Rubriche

Fedeltà

In una parola La rubrica settimanale di Alberto Leiss

Pubblicato più di 8 anni faEdizione del 1 marzo 2016

Il dibattito acceso sull’eliminazione della fedeltà nella legge sulle unioni civili ha indignato Massimo Cacciari, che ha parlato di «discussioni tra ubriachi», e dell’importanza del valore simbolico dei riti e della fedeltà, per parlare della quale, però, avrebbe avuto «bisogno di 50 pagine». Probabilmente è giusto.

Tuttavia non mi sono dispiaciute le non molte righe dell’amaca di Michele Serra sulla Repubblica di venerdì scorso: da un lato denuncia l’ossessione discriminatoria omofoba di parte del mondo cattolico e della destra politica, dall’altro rileva la possibile eterogenesi dei fini della scelta legislativa.

Ci siamo improvvisamente accorti che la fedeltà è tuttora presente nelle norme sui nostri matrimoni eterosessuali. Pensavamo fosse una scelta – e magari un dramma – del cuore (e del desiderio) invece è un dispositivo burocratico del codice civile. Una cosa che non risponde più alla nostra idea di libertà e responsabilità personale, con buona pace del ministro Alfano su che cosa sarebbe «contro natura».

Ma è molto importante tenere conto del punto di vista dei destinatari della legge. Giovedì scorso, per un caso subito dopo l’approvazione in Senato, ho partecipato a un incontro di gruppo insieme a alcuni amici gay, e la discussione si è naturalmente accesa. Con reazioni diverse.

Chi era molto offeso e arrabbiato per il valore discriminante delle modifiche apportate, ben deciso a partecipare il prossimo 5 marzo alla manifestazione contro le scelte del governo e del Parlamento, e forse ancor più contro i toni omofobici intollerabili di tanti commenti politici : “Ci siamo già sposati all’estero, e non vogliamo un bambino, tantomeno con la maternità surrogata, ma l’uso che è stato fatto di questo argomento è stato rivoltante…».

Chi tutto sommato giudicava «un passo avanti» la legge, ma raccontava di quanto difficile sia stato questo mese di discussioni non solo sui giornali, in rete e alla tv, ma anche nei luoghi di lavoro, al bar, tra amici: «Ho risbattuto la faccia sulla mia diversità, ogni giorno ho dovuto scegliere se tacere, intervenire, schierarmi, difendermi, attaccare. E ora devo sfogarmi con voi…».

Chi, infine, ha reso anche più leggera e nello stesso tempo più seria e concreta la discussione ponendo il quesito drammatico, ma sorridendo: «E ora che faccio quando torno a casa, devo chiedere al mio fidanzato se vuole che ci sposiamo? Pardon, che ci uniamo civilmente?…».

Un interrogativo sui sentimenti, sulla responsabilità (comunque la legge – se sarà approvata definitivamente – indica diritti e doveri) che ha spinto tutti, etero e gay, a dire qualcosa del proprio vissuto, affettivo e relazionale, matrimoniale, compresa la vessata questione della fedeltà. Sono questi gli scambi in cui si capisce davvero che, pur senza negare le differenze – anzi riconoscendole pienamente: essere gay o etero, essere maschi – sono assurdi i pregiudizi, per lo più maschilisti, che sostengono gli scontri identitari, fino all’omofobia.

Sarebbe stato più giusto un solo articolo che aprisse anche alle persone omosessuali la via del matrimonio, come accade in tanti paesi anche molto cattolici. Ma può darsi che questa discussione apra un – per me preferibile – processo di decostruzione (direbbe Derrida) inverso: non sia più lo stato a celebrare riti simbolici e sacramenti, si limiti a riconoscere e a sostenere tutti i patti di convivenza, di sostegno reciproco e di cura degli altri, grandi e piccini, senza discriminazioni.

Ognuno poi sacralizzi le relazioni della propria vita se lo vuole e come vuole.

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