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«Fare il cane del Sinai»

Il quartiere di Rimal a Gaza, distrutto dai bombardamenti israeliani foto Ap/Mohammed TalateneIl quartiere di Rimal a Gaza, distrutto dai bombardamenti israeliani – foto Ap/Mohammed Talatene

Israele/Palestina Fare il cane del Sinai pare sia stata una locuzione dialettale dei nomadi che un tempo percorsero il deserto altopiano di El Tih, a nord del monte Sinai. Variamente interpretata […]

Pubblicato circa un anno faEdizione del 20 ottobre 2023

Fare il cane del Sinai pare sia stata una locuzione dialettale dei nomadi che un tempo percorsero il deserto altopiano di El Tih, a nord del monte Sinai. Variamente interpretata dagli studiosi, il suo significato oscilla tra ‘correre in aiuto del vincitore’, ‘stare dalla parte dei padroni’, ‘esibire nobili sentimenti’. Sul Sinai non vi sono cani». Così Franco Fortini nel 1967 provava a smarcarsi dall’ingiunzione a schierarsi da un lato o dall’altro nella guerra dei Sei giorni.

Egualmente oggi, come mostra un poco sofisticato sondaggio di Repubblica, bisogna scegliere tra Hamas e Israele. Nello scontro tra barbarie che viviamo bisogna scegliere quale forma di violenza si preferisca. Quella che alcuni considerano liberatoria, per quanto efferata, di un popolo oppresso che fa anche «danni collaterali» come in ogni conflitto o quella istituzionale, apparentemente morale, di uno Stato composto da discendenti di sfuggiti o morti nei campi di sterminio europei, ma appoggiato dai paesi occidentali?

Edward Said sintetizzava la vicenda israelo-palestinese in termini di rapporto tra vittime. I palestinesi erano «vittime delle vittime». Questo permetteva a Said di inquadrare la perdita di una patria per i palestinesi dentro la tragedia degli ebrei che, proprio per non aver mai avuto una patria che li difendesse, erano stati sterminati in Europa. In comune vi erano torti subiti e diaspore imposte. Riconoscendosi nei reciproci dolori si poteva pensare a una convivenza insieme. Asimmetricamente, si poneva la croce dello Stato – tanto necessario quanto impossibile per entrambi.

Questa capacità oggi manca. E il tifo europeo non favorisce certo che si possa trovare una soluzione.

Chi si schiera senza se e senza ma con Israele, oltre a misconoscere l’eccidio a Gaza, perde di vista la posta in palio europea di questo conflitto. Permettere all’estrema destra al governo – o che sta per arrivarci – in diverse parti d’Europa di legittimarsi come non antisemiti. E legittimare al contempo il proprio odio per il mondo arabo – e, di conseguenza – contro gli stranieri, spesso considerati come necessariamente musulmani, per permettere di alterizzarli irrimediabilmente.

Accomuna alla reazione differenziale della destra e dei liberal-conservatori verso il massacro dei palestinesi, l’indifferenza (e il compiacimento) con cui si assiste alla morte di migliaia di persone lungo i nostri confini. Così come il gusto con cui si accetta l’apartheid europeo dei migranti, la strutturale discriminazione a mezzo di legge a cui sono sottoposti.

A destra e al centro si rispolvera lo scontro di civiltà – loro, i palestinesi “ostaggio di Hamas”, sono bestie assetate di sangue e figlie di Allah, noi e Netanyahu siamo civili e possiamo uccidere con distacco migliaia di civili per difendere la democrazia e la libertà occidentale. Minoritari e poco rilevanti pezzi di sinistra, a loro volta, negano il valore della vita di civili e bambini israeliani (ma non solo) e trattano Hamas come una forza di liberazione. Il mainstream esagera la rilevanza pubblica di questi settori e squalifica l’intera sinistra contro l’occupazione israeliana. Di qui anche la repressione delle piazze e degli intellettuali palestinesi.

Purtroppo c’è un problema di antisemitismo a sinistra stratificato. Lontani sono i tempi in cui Rossanda diceva di voler essere ebrea. La sinistra anti-occupazione israeliana e nella diaspora è isolata. Si trova a piangere morti tra gli ebrei e tra i palestinesi, repressa dal governo che ovviamente trae vantaggio dal conflitto militare. Chi si compiace dell’attacco del 7 ottobre perde di vista il rapporto di oggettiva alleanza tra Hamas e Netanyahu.

Tuttavia, per quanto personalmente il problema dell’isolamento degli ebrei contro l’occupazione mi riguardi, la priorità è un’altra. Favorire la fine dell’assedio e del barbarico isolamento da acqua, luce, cibo e medicine, interrompere il bombardamento letale su Gaza e far tornare gli ostaggi. E, sul lungo periodo, lavorare a porre fine all’apartheid contro i palestinesi e garantire la coesistenza.

Quando la strage sarà terminata, bisognerà chiedersi, a 75 anni dalla nascita di Israele, riconosciuta la catena di torti su cui si fonda – il nesso tra vittime e vittime delle vittime -, quale ipotesi di organizzazione politica possa darsi lì. I due Stati sono morti per l’espansione delle colonie israeliane e per il fallimento di Oslo. Lo Stato unico appare inimmaginabile data l’incrostazione di odio reciproco. Eppure, forse, è solo disarticolando Stato e identità (religiosa o nazionale che sia) che si può immaginare un futuro diverso, oltre gli odi etnici, al di là della violenza che sempre accompagna la fondazione e la riproduzione di uno stato-nazione.

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