Già prima dell’abbandono della strategia Zero Covid, la Cina aveva iniziato a fare i conti con la fragilità della sua economia. La seconda potenza mondiale, piegata dalle conseguenze della sua politica antivirus e dal rallentamento dell’economia globale, ha visto la sua crescita calare. Lasciatosi alle spalle il florido periodo di progresso economico a doppia cifra, la Cina deve fare i conti con il mercato immobiliare in crisi, l’aumento della disoccupazione giovanile e la sempre più debole fiducia dei consumatori e investitori dopo anni di rigide politiche anti Covid.

Il gigante asiatico vuole chiudere però la negativa parentesi economica e aprirne un’altra segnata da prospettive di crescita nel 2023. Il ministro delle Finanze cinese, Liu Kun, a inizio mese, ha dichiarato ai media statali che il governo prevede di incrementare nel 2023 la spesa pubblica per sostenere la ripresa economica, adottando misure come tagli fiscali e maggiori sussidi.

Pechino sta allentando la presa su settori che hanno conosciuto l’applicazione di restrizioni per frenare la loro crescita incontrollata, come accaduto con i giganti della tecnologia. L’aggressiva regolamentazione imposta dal governo per limitare l’influenza delle big tech ha recentemente ceduto il passo a un allentamento della linea dura nei confronti delle società tecnologiche.

C’è poi il settore dell’immobiliare che, dopo lo scandalo Evergrande, aveva mostrato quanto fossero imprudenti e sconsiderate le dinamiche di prestito delle società immobiliari. Per rilanciare un settore ormai in ginocchio, Pechino ha sollevato molte delle restrizioni applicate alle imprese dell’edilizia, facilitando i prestiti per gli sviluppatori. Queste misure, tuttavia, potrebbero non attutire il colpo in arrivo con la recessione economica globale.

C’è però chi è fiducioso. La Cina rischia di essere cresciuta solo del 3% nel 2022 (inferiore all’obiettivo del governo del 5,5%), ma le attese della Banca Mondiale sono di un +4,3% quest’anno, a seguito della riapertura delle attività commerciali dopo l’allentamento sulla strategia Zero Covid.

Ma proprio nel mese di dicembre, quando il paese ha fatto un’inversione a U sulla politica antivirus – e registrato un aumento di casi di Covid, che ha fortemente interrotto la produzione cinese e le catene di approvvigionamento globale -, si è registrato un crollo delle esportazioni al ritmo più rapido dal febbraio 2020, cioè dall’inizio della pandemia. L’export cinese ha segnato una contrazione del 9,9% il mese scorso, lievemente al di sopra delle aspettative di un crollo del 10%, estendendo le perdite di novembre, quando le esportazioni hanno registrato una contrazione dell’8,7%. Secondo i dati delle autorità doganali cinesi pubblicati nella giornata di ieri, anche le esportazioni verso Usa e Ue hanno continuato a diminuire bruscamente, scendendo rispettivamente del 19,51 e del 17,5% rispetto all’anno prima. In calo anche le importazioni, che hanno registrato a dicembre un -7,5%, a un ritmo meno elevato del -10,6% di novembre scorso, e al di sopra delle stime di un crollo del 9,8%.

Anche su base annua, i dati commerciali mostrano un generale peggioramento. Complessivamente, lo scorso anno il commercio della Cina è aumentato del 4,4% a 6,3 mila miliardi di dollari, rispetto al 2021. Le esportazioni nel 2022 sono aumentate del 7% a 3,6 mila miliardi di dollari su base annua, mentre le importazioni hanno registrato un incremento del +1,1% a 2,7 mila miliardi di dollari. I dati però confermano le tesi degli esperti, secondo cui la debole crescita delle esportazioni (che si contrarrà fino a metà anno) si riflette nell’importanza attribuita alla domanda interna come motore chiave per rilanciare l’economia cinese nel 2023.

Le aspettative appaiono quindi incerte. Resta preoccupazione per l’anno che è appena iniziato e il ministero del Commercio non ne fa mistero: stando al suo titolare Wang Wentao, la Cina si trova ad affrontare il compito arduo di «mantenere la stabilità e migliorare la qualità del commercio estero». Per scongiurare il peggio, il paese è disposto ad ascoltare le opinioni delle società straniere, comprese quelle statunitensi. E questo nonostante un calo del commercio con gli Usa e un aumento, invece, con la Russia.