Cosa racconta Evil Does Not Exist, il nuovo film di Hamaguchi Ryusuke che arriva dopo la sorpresa e il successo di Drive My Car? Una storia di brusche virate, comunità e conflitti contemporanei, di improvvisi sussulti metafisici in cui balena il sentimento catastrofico del pianeta oggi. Le prime sequenze ci portano in un luogo del Giappone immerso nella natura, Mizubiki, un villaggio con pochi abitanti fuori dalla capitale, ci sono i boschi, le montagne, l’acqua è pura e il sapore degli udon cambia. Lo afferma con convinzione una delle abitanti del posto che ha un piccolo ristorante insieme al compagno, e da Tokyo ha scelto di vivere lì proprio per cercare questo gusto.

C’È UN PADRE che vive con la sua bambina, la piccola Hana, la mamma lo intuiamo da alcuni dettagli non c’è più. Lui si definisce il «tuttofare» della comunità, lei sfugge sempre ai suoi ritardi all’uscita di scuola avventurandosi per il bosco, l’uomo sa che la ritroverà a mezza strada e insieme scopriranno il nome di nuove piante e di alberi e forse riusciranno a vedere i cervi. C’è nel racconto di questo rito quotidiano una intensità quasi fisica, la texture densa delle immagini sembra restituire l’odore pulito dell’aria e il freddo del cielo terso mentre il laghetto si sta sciogliendo.

Poi all’improvviso tutto cambia, gli abitanti del posto scoprono che una società costruirà un glamping, un campeggio di lusso, molto glamour basato su un progetto improvvisato che una società ha messo insieme per avere i sussidi della pandemia. Non sanno le persone che lo presentano che ci sono regole, abitudini, e non è tanto la questione della comunità ostile allo straniero ma il bisogno di difendere un patrimonio naturale dalla superficialità di investimenti e profitti che non ne contemplano rispetto.

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Il cinema di Hamaguchi, una vertigine sospesa tra il destino e la fantasiaTemono soprattutto che l’acqua per loro vitale verrà inquinata dagli scarichi fognari del campeggio messi in modo da scaricare nella sorgente. Poi quel progetto è a risparmio, non ci sono guardiani, come controllare i fuochi, in che modo controllare i cervi che passano proprio su quel terreno, che non attaccano l’uomo a meno che non siano feriti o che non sentano pericoli per i loro cuccioli? L’ecosistema ne verrebbe alterato per non dire sconvolto contraddicendo la regola del sindaco del villaggio, per cui chi sta a monte deve comportarsi in modo responsabile per chi sta a valle, un senso di responsabilità che manca negli investitori.

Nel secondo movimento del film che è quello della conquista i colori dei luoghi mutano, si fanno cupi quasi a riflettere le preoccupazioni dei loro abitanti. Per convincerli i due intermediari, a loro volta delusi dal proprio lavoro, provano a coinvolgere il «tuttofare» poi uno di loro scopre che vorrebbe addirittura abitare lì. Finché non accade qualcosa di terribile, la piccola Hana scompare. È il segno definitivo che qualcosa si è rotto per sempre?

CI SONO MOLTE LINEE nella narrazione, alcune più evidenti e altre sotterranee, ma l’andamento di Hamaguchi non è mai lineare, si abbandona a scarti improvvisi, vuoti e pieni, cambia spesso il suo passo, come la composizione musicale che ne è l’ispirazione (la musica è composta da Eiko Ishibashi, già autrice delle musiche di Drive My Car). La sua regia cerca costantemente una dimensione di maggiore segretezza rispetto a quanto afferma all’inizio, cioè l’attacco alla natura e la mancanza totale di attenzione nei confronti della vita che racchiude, di quegli equilibri che sono fondamentali per l’umano. Insieme a un sentimento di responsabilità di cui dovremmo essere tutti e tutte consapevoli.
Un film sulla distruzione della Terra dunque? Si ma appunto, non solo. È prima un’armonia che si rompe, che spezza la sinfonia visiva e sonora, lasciando passare dissonanze dolorose, la violenza dei rapporti umani, in modo enigmatico e sorprendente, che si affida all’immagine e al suo essere tempo e spazio. È proprio questa affermazione di cinema che rende il film di Hamaguchi una delle belle sorprese in un festival nel quale troppe volte il racconto sembra avere bisogno di involucri preziosi e virtuosismi fini a se stessi. I temi del presente, e una intimità universale, sfuggono qui dalla formattazione, si affidano alle emozioni dei momenti, ai passaggi impercettibili di un sentimento che è una condizione universale.