Nel 2012 il Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura condannava come degradante la castrazione di persone ree di delitti sessuali ancora in vigore in Germania. Negli stessi anni Matteo Salvini invocava la castrazione chimica per i colpevoli di stupro, innescando un dibattito per molti aspetti surreale. In tutt’altra area del mondo, a Medina, le autorità saudite mettevano fine alla pratica di ingaggiare un gruppo di eunuchi come guardie della tomba del profeta: gli ultimi otto venivano fotografati prima di lasciare l’incarico nel 2013.

Basterebbero questi episodi a ricordarci che la vicenda ultra-millenaria ricostruita da Marzio Barbagli in Uomini senza Storia degli eunuchi e del declino della violenza (il Mulino «Biblioteca storica», pp. 384, € 34.00), si è conclusa in tempi recenti. Se Eduardo Scarpetta e più tardi Totò hanno parodiato gli eunuchi e i loro padroni in una commedia come Il turco napoletano, Bernardo Bertolucci, percorrendo la storia di Pu Yi, ultimo sovrano Qing della Cina, ha attinto ai ricordi di un imperatore che fino ai momenti finali dell’occupazione giapponese pretese di essere affiancato dai suoi fedeli servitori, alla stregua dei più potenti predecessori.

L’orientalismo europeo, sin dall’epoca dei Lumi, ha interpretato la storia degli eunuchi come un risvolto del «dispotismo asiatico»; come un istituto barbarico inteso a salvaguardare la fedeltà di mogli e concubine nelle società in cui vigeva la poligamia. Ma è stato davvero così? Bastano gli harem e i despoti a spiegare la lunga durata di una pratica che destinava alcuni maschi, sin dalla pubertà, a subire una mutilazione che poteva ucciderli e il più delle volte veniva imposta senza consenso?

Come in altri suoi libri, Barbagli mescola sapientemente storia e interpretazione sociologica, e partendo da un’intuizione di Max Weber (ma anche da alcune pagine di Georg Simmel), studia gli eunuchi come un gruppo sociale creato per svolgere precise funzioni sessuali, rappresentative o di potere, con uno status incerto che nei secoli – ma non a tutte le latitudini – ha determinato improvvise ascese, repentine cadute e condizioni personali paradossali.

In principio furono gli assiri, nel cui impero la presenza di eunuchi come coppieri, maestri di cerimonie, condottieri, addetti al seppellimento regale e amanti di cui si tentava di preservare la freschezza adolescenziale è registrata dalle fonti iconografiche e testuali. Quasi sempre schiavi provenienti da comunità sconfitte, poi arruolati a corte, gli eunuchi costituirono una riserva di uomini senza barba fedeli al sovrano, che se ne servì per arginare il potere dell’aristocrazia.

Il nesso tra schiavitù, castrazione, emancipazione e servizio per gli imperatori si riprodusse sotto il dominio degli ittiti e degli achemenidi: eunuchi come Petesakas, Bagapates, Gadata, Feraula condizionarono le scelte dei sovrani persiani, da Ciro fino a Serse. Lo stesso accadde sotto Alessandro, che amò l’eunuco Bagoa, introducendo nel mondo ellenistico un istituto ignoto nelle póleis greche. Considerati di genere maschile, e spesso impiegati per educare i figli, gli eunuchi fecero comparsa anche nella Roma imperiale, dove si diffusero i culti di Cibele e di Attis, che si era inflitto l’auto-evirazione e fu celebrato da Catullo. Il rapporto tra Nerone e Sporo, come quello tra Earino e Domiziano, furono di natura erotica e permisero a quei liberti di godere di grande potere, suscitando le ire dell’élite senatoria.

L’avvento del cristianesimo non mise fine all’esistenza degli eunuchi nel mondo mediterraneo, tanto più che un ambiguo passo del vangelo di Matteo (19,12) parve equiparare la mutilazione alla castità come condizione buona per meritare la salvezza. Si castrò per questo Origene, e altri l’avrebbero seguito, nonostante il divieto di arruolare chierici eunuchi introdotto nel concilio di Nicea del 325. Ancora nel XVIII secolo, in Russia, la setta degli Skopcy praticava l’auto-mutilazione per scopi sacri.

La legislazione dei primi imperatori cristiani vietò la castrazione; ma fu Bisanzio, per secoli, ad arruolare un alto numero di eunuchi come cerimonieri, condottieri (Eutropio, Narsete), ciambellani o cubicularii: gli uomini che avevano il privilegio di dormire accanto al sovrano per preservarne l’incolumità, diventandone i favoriti. Privi di appoggi tra la nobiltà e spesso detestati, gli eunuchi (ex schiavi provenienti spesso da precise regioni) dipendevano dall’imperatore e ne seguivano la sorte, in un contesto che per secoli non conobbe regole di successione.

Alcuni dei mutilati divennero teologi, patriarchi, santi e persino imperatori, e il fragile status dei ricchi eunuchi fu tanto ambito che alcune famiglie imposero la mutilazione a uno dei figli maschi sperando che facesse carriera. Non tutti ottennero l’ascesa sperata, e così una schiera di menomati privi di impiego affollò Bisanzio sino alla caduta nel 1453.

Anche il mondo islamico registra la presenza di eunuchi, e lo stesso Maometto ne ebbe uno al suo servizio. Nella Baghdad abbaside i mutilati si occupavano dell’intelligence; in Sicilia il dominio arabo fu sostituito da quello normanno e svevo, senza che i nuovi sovrani, sino a Federico II, rinunciassero a giovarsi dei castrati, che contribuirono a edificare la Cappella Palatina di Palermo. Certo, mutilare un islamico non fu consentito; ma gli ottomani ricorsero agli schiavi (del cui mercato gli imberbi eunuchi erano la merce più costosa); ai captivi guadagnati con la guerra di corsa; ai figli convertiti delle comunità cristiane, che fornivano all’Impero pure abili ammiragli, pasha e la milizia dei giannizzeri.

Come nel mondo bizantino, l’eunuco («bianco» o «nero», cioè africano) era spesso istruito. E nel Topkapi – il palazzo con l’harem che la letteratura odeporica europea fino al XIX secolo descrisse, o meglio immaginò, con un misto di attrazione e repulsione – gli eunuchi apparvero come «emissari neutrali di un universo morale carico di tensione sessuale», come artefici di discordia politica, come «minaccia continua all’ordine sociale e morale» (p. 159).

Nelle aree di confine dell’Egitto e del Sudan furono i monaci copti a praticare le mutilazioni per fornire eunuchi agli islamici. Quanto alla Cina, dall’epoca Tang la presenza degli eunuchi a corte – che avrebbe stupito i missionari gesuiti – crebbe di pari passo con l’ascesa della burocrazia reclutata con il sistema degli esami, per creare un contrappeso non solo all’élite militare ma anche a quella confuciana, che disprezzò i suoi competitori. Insomma, anche nel Celeste Impero, e sino alla rivoluzione del 1912, i mutilati svolsero la funzione di bilanciare il potere in favore del sovrano, attirandosi per questo molte ostilità.

Ciò non impedì a Zheng He, un eunuco islamico vissuto sotto i Ming, di allestire sette spedizioni navali che lo portarono sino alle coste Swahili (1405-1433). A rifornire la corte di eunuchi erano gli stati tributari che inviavano emissari per omaggiare la grandezza della Cina; e come in altri contesti, gli eunuchi che riuscirono a emergere (una minoranza, rispetto a un esercito di mutilati che premevano alle porte della Città Proibita) ebbero mogli e figli adottivi.

La percezione del loro genere, in Cina così come nel mondo antico e in quello islamico, fu ambigua, e le loro storie – come quelle dei castrati destinati al canto dal XVI al XIX secolo, di cui Barbagli traccia il successo e le traversie nell’ultimo capitolo, passando dai cori spagnoli a Farinelli, da Domenico Mustafà al divieto emanato dai papi nel 1903 di ricorrere alla loro voce nelle cappelle cattoliche – ci parlano di una condizione liminare e di una pratica brutale scomparsa con il declino moderno della violenza, almeno stando alle tesi di Norbert Elias e di Steven Pinker che Barbagli fa proprie e che, forse, non tengono abbastanza conto delle guerre e della stagione del colonialismo europeo. In ogni modo, attraverso una storia raramente raccontata (forse per ripulsa), Barbagli ci permette di comprendere uno status in cui privazione e successo sociale si sono mescolati in modo sorprendente.