Davanti al proliferare delle guerre e con la prospettiva di un collasso ecologico alle porte, è difficile parlare di progresso senza suscitare nel migliore dei casi ironia, nel peggiore disprezzo.  Il nostro sguardo sul progresso è sempre ancora quello dell’angelo della storia descritto da Benjamin nella più celebre delle sue tesi: lo sguardo di chi ne contempla attonito le macerie. E, tuttavia, è paradossalmente difficile rinunciare del tutto a questo concetto nel momento in cui ci si rifiuti di aderire senza riserve a quel realismo capitalista che continua a dirci «there is no alternative». Perché se è vero che quella del progresso è stata, e rimane, la più pervicace delle ideologie a favore dello stato delle cose vigente, come scrisse Adorno, proprio «attraverso l’assenza di complicità con il progresso», negandolo o opponendogli resistenza, si dimostra «di essere d’accordo con esso». Perché questo parla a favore del suo contenuto di verità più proprio: che le cose possono andare diversamente e meglio.

Mantenendo un riferimento contemporaneamente alla felicità e alla totalità, il concetto di progresso implica quindi tanto la resistenza alla regressione, quanto l’istanza di trasformazione. Proprio a queste differenziazioni del concetto di progresso, orientate a scioglierne le ambiguità, mettendone in moto l’essenza dialettica, sono dedicate le riflessioni che Ernst Bloch presentò in una conferenza del 1955 e che ora tornano disponibili – Differenziazioni sul concetto di progresso, PGreco  (pp. 142, € 14,00) –  in una nuova traduzione e arricchite da un saggio introduttivo di Mauro Farnesi Camellone e un ampio contributo di Vittorio Morfino, dedicato al concetto di temporalità plurale nella tradizione marxista.

Anzitutto, per Bloch è necessario differenziare i piani del concetto e le sue aporie: progresso rispetto a cosa, in che ambito, in che luogo? Inoltre, se per Benjamin e per la maggioranza della teoria critica francofortese progresso significa anzitutto primato del tempo omogeneo e vuoto, per Bloch «il progresso stesso non avanza attraverso una omogenea serie temporale, ma attraverso differenti piani temporali». Esso è quindi essenzialmente incompatibile con quell’idea di Storia Universale, come «unità di scopo, legame onnicomprensivo», con la quale è stato erroneamente scambiato. Il concetto di tempo progressivo implica come tale una «topografia polifonica», dal momento che «avanza attraverso un’unità dell’humanum che ancora sta emergendo processualmente in modo molteplice»: e proprio sull’idea di un multiversum si fonda l’ipotesi originale di Bloch. Questa idea di una temporalità plurale ma organica, decentrata ma strutturata, incompiuta ma riferita all’intero, finalizzata all’espressione e all’appropriazione piena dell’humanum ma non «limitabile esclusivamente al campo antropologico» è in antitesi con ogni temporalità unitaria e omogenea, tipica della filosofia della storia; ma anche di ogni interpretazione della rivoluzione come «locomotiva della storia». Della rivoluzione viene mantenuto però il nocciolo di verità più essenziale: quello di una discontinuità storica radicale, che è contemporaneamente unità di senso nella realizzazione dell’humanum.

Il tentativo di Bloch appare così non solo particolarmente avanzato nell’attenzione che, in controtendenza rispetto a buona parte del marxismo occidentale, concede  ai contesti coloniali ed extraeuropei, ma particolarmente attuale quando la contraddizione tra un universalismo occidentale, sempre più strumento di guerra e di egemonia, e un mondo sempre più plurale e decentrato che rivendica la propria autonomia, rischia di obliterare ogni prospettiva di emancipazione collettiva e internazionalista.

Errata Corrige

L’articolo è stato corretto, una prima versione conteneva l’immagine del compositore Ernest Bloch e non del filosofo Ernst Bloch