Ercolano, il mercato delle pezze
Reportage Andare per bancarelle nei mercati dove 80 anni fa la Storia ha inventato il vintage in Italia, la città vesuviana è considerata il maggiore centro italiano per il commercio di abiti usati. Tra jeans, giubbotti e capi restituiti a nuova vita
Reportage Andare per bancarelle nei mercati dove 80 anni fa la Storia ha inventato il vintage in Italia, la città vesuviana è considerata il maggiore centro italiano per il commercio di abiti usati. Tra jeans, giubbotti e capi restituiti a nuova vita
«Chiediamo che lo storico Palazzo Capracotta sia recuperato, che al suo interno nasca un archivio tessile e un’accademia della moda con laboratori e corsi di formazione». Quando si parla di Ercolano, la sua città, «la città che ottanta anni fa ha inventato il vintage», Giuseppe Bottone è un fiume in piena. Sessant’anni, ha il tono determinato e battagliero di chi ha passato una vita intera nel settore dell’abbigliamento di seconda mano. Come lui, tanti qui a Resìna (l’antico nome di Ercolano, ndr), «che, con le pezze, ha dato da mangiare a migliaia di famiglie». La città vesuviana è infatti considerata il maggiore centro italiano per il commercio di abiti usati. Un primato conquistato nel tempo e che affonda le radici nel 1944, quando, subito dopo lo sbarco degli alleati, qui nacque un mercato in cui si vendevano le divise trafugate ai convogli americani. Oggi invece il «mercato delle pezze» è costituito da una ventina di negozi, dove si possono trovare jeans della Levi’s, tute della Nike, giacche cerate o cappotti. Il volume d’affari è connesso soprattutto ai numerosi capannoni di Ercolano, dell’area periferica e delle città vicine in cui avviene la lavorazione degli abiti usati, che sono poi venduti in Italia o all’estero.
LUNGO LA STRADA CHE CONFUCE AL MERCATO incontriamo Ciro Cozzolino, commerciante di abiti usati da trent’anni. Nella sua bottega si trovano giubbotti e pellicce. «La bellezza di questo lavoro consiste nella continua ricerca di vestiti a cui poter dare nuova vita, nella possibilità di offrire un’alternativa alla moda di oggi, troppo impersonale e simile a sé stessa». Salendo su via Pugliano, poco più avanti c’è il negozio di Luigi D’Urso, giovane imprenditore. Dopo aver lavorato per anni nell’attività commerciale familiare, D’Urso ha deciso di mettersi in proprio.
«PER ARRIVARE FINO A QUI – esordisce indicando alcuni vestiti ancora chiusi nei sacchi – quei capi compiono un giro lunghissimo. La filiera ha inizio dal privato cittadino, quando decide di buttare ciò che non indossa più nei cassonetti gialli della raccolta di abiti usati». I bidoni a cui fa riferimento sono quelli di organizzazioni umanitarie come Caritas Ambrosiana o Humana. Al loro interno, secondo l’ultimo rapporto dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), nel 2022 sono state raccolte 160.300 tonnellate di abiti dismessi. Di queste, solo una piccola parte è donata in beneficenza. La restante viene raccolta dalle stesse organizzazioni attraverso cooperative sociali e venduta ad aziende autorizzate al recupero. I capi sono poi smistati nei capannoni, disinfettati e venduti «a balloni» in base alle richieste: i pezzi migliori finiscono nei negozi di seconda mano italiani e, soprattutto, del Nord Europa; quelli di minore qualità, invece, sui banchi dei mercati settimanali o esportati per lo più nei Paesi asiatici e in Africa. Lo stesso processo riguarda i rifiuti di abbigliamento importati, secondo Ispra, dalla Svizzera (12 mila tonnellate) e dalla Germania (17 mila) e recuperati quasi totalmente in Campania.
RITORNIAMO AL MERCATO con due domande: chi compra i vestiti di seconda mano? E perché? Come spiega D’Urso, il suo negozio è frequentato soprattutto dai più giovani, che sono «spinti dal prezzo conveniente, dalla possibilità di acquistare un jeans di qualità senza spendere una fortuna» e forse, aggiunge, «anche dalla maggiore consapevolezza circa i danni prodotti dalla fast fashion». Nel mercato, in effetti, si incontrano molti ragazzi. Uno di questi è Ivan Vitiello, giovane scrittore, che a Ercolano è cresciuto. Giubbotto turchese degli anni ‘80 in «vera piuma d’oca», felpa bianca con su impresso il volto di Maradona, un paio di jeans Levi’s acquistati fra i banchi del mercato di Resìna, dove, dice, «se sai cercare fra le pezze e contrattare con i venditori puoi fare grandi affari». E continua: «Mi ha sempre affascinato l’idea del riutilizzo: da un lato, perché permette di rimettere in circolo vestiti che altrimenti verrebbero buttati; dall’altro, mi pare traduca bene l’arte del sapersi arrangiare, di saper bonariamente mettere a pezza a culore» (l’arte di trovare un sotterfugio per camuffare un problema anziché risolverlo).
LUNGO VIA PUGLIANO INCONTRIAMO Luca De Iorio, 24 anni. «Vengo spesso qui. Preferisco acquistare capi usati perché mi permette di avere uno stile personale, autentico. In più, faccio del bene al pianeta». Anche secondo Pietro Mancini, 25 anni, scegliere indumenti di seconda mano significa tentare di ridurre il proprio impatto ambientale: «Frequento questo mercato da sei anni, da quando mi sono iscritto alla facoltà di Agraria nella vicina Portici. Sono sensibile alla questione ambientale, perciò credo che ciascuno di noi sia chiamato a cambiare abitudini, consumando meno o comprando ciò che già esiste».
CHE L’AFFERMAZIONE DEL «SECOND HAND» dipenda soprattutto dai giovani è stato osservato, nel 2023, dal rapporto di Boston Consulting Group e Vestiaire Collective, piattaforma leader nel mondo dell’abbigliamento di seconda mano. Secondo lo studio, il mercato della rivendita di moda vale 120 miliardi di dollari in tutto il mondo, più del triplo rispetto al 2020. Questo si deve in gran parte ai consumatori della cosiddetta generazione Zeta (Gen Z), i nati fra il 1997 e il 2012, più propensi a vendere (44%) e ad acquistare (31%) articoli usati. «È evidente – afferma Eleonora Chiais, docente di Moda dell’Università di Torino – che i ragazzi siano più sostenibili. La mia generazione è stata a lungo convinta che vestirsi con capi usati o rattoppati fosse una vergogna. I capi second hand erano l’antimoda. Oggi, invece, la Gen Z ci sta dicendo che si può comprare meno e meglio».
L’INDUSTRIA DELLA MODA E’ LA SECONDA più inquinante al mondo, dopo quella petrolifera. «Viene stimato – spiega Patrizia Calefato, docente di Sociologia all’Università di Bari – che ogni anno sia responsabile dell’8-10% delle emissioni globali di anidride carbonica». A questo problema se ne affiancano altri, come il consumo di risorse naturali e l’inquinamento idrico del processo di tintura. Rispetto a ciò, i benefici ambientali del mercato di seconda mano sono innegabili. La Confederazione europea delle industrie di riciclo (EuRic) nel 2023 ha mostrato che il riuso dei tessuti può ridurre di 70 volte l’impatto ambientale dell’industria tessile.
EPPURE, CREDERE CHE POSSA ESSERE la soluzione definitiva sarebbe semplicistico. Cristiana Arangino, professoressa di Design della moda all’Istituto europeo di design (Ied) di Cagliari, da anni denuncia il «colonialismo dei rifiuti tessili» perpetrato dai Paesi europei sull’Africa (ne parliamo a pagina 4, ndr). «L’Occidente tratta gli Stati africani come discariche in cui riversare tonnellate e tonnellate di indumenti usati che andrebbero in realtà smaltiti perché invendibili o di pessima qualità». In Africa arriva di tutto: oltre a indumenti sintetici e altamente inquinanti, per non pagare i costi dello smaltimento molte aziende inseriscono nei «balloni» anche gli scarti veri e propri, che finiscono così per essere accumulati sulle spiagge e nelle periferie di città come Accra o Nairobi.
UNA INDAGINE DELLA Changing Markets Foundation ha rivelato che degli oltre tre milioni e mezzo di abiti usati spediti ogni anno dall’Italia al Kenya, fino a uno su tre contiene plastica ed è di qualità così bassa che viene gettato o bruciato. «L’affermazione della moda di seconda mano – afferma Alice Tolu, docente di Storia della moda allo Ied di Cagliari – fa sperare bene ma è necessario anche altro. Bisogna produrre meno, insistere sull’educazione e su una pratica della moda che permetta di usare di nuovo le mani e di conoscere i tessuti e le tecniche dimenticate a causa della fast fashion».
PROPRIO PER CHIEDERE ALLE ISTITUZIONI di investire nella formazione tessile Giuseppe Bottone e i membri dell’associazione Ercolano Cultura Vintage hanno abbellito il Palazzo Capracotta – una villa vesuviana del ‘600 in rovina, coperta da ponteggi arrugginiti – appendendo lungo l’impalcatura 300 jeans. «Continuando ad assecondare questo modello produttivo – afferma Bottone – presto saremo costretti a scegliere se piantare il grano o il cotone. Perciò è necessario andare nelle scuole, raccontare i danni della fast fashion, recuperare spazi come Palazzo Capracotta per creare luoghi di formazione e di ricerca di tessuti sostenibili».
*Questo reportage è stato realizzato nell’ambito della Scuola di giornalismo della Fondazione Lelio e Lisli Basso.
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