Cultura

Enzo Ciconte e le origini della criminalità in Puglia

Enzo Ciconte e le origini della criminalità in Puglia

Scaffale Il libro edito da Manni «Carte, coltello picciolo e carosello» sarà presentato al Salone di Torino oggi, alle 12.45, in Sala Rosa

Pubblicato più di un anno faEdizione del 19 maggio 2023

I processi di definizione di un fenomeno sociale come criminale rappresentano una costruzione sociale complessa. Quando si passa dalla criminalità ordinaria, individuale, a quella organizzata, il quadro si complica ulteriormente: da quale punto in poi si travalica il confine tra criminalità e associazione a delinquere? Qual è il criterio discriminante tra i membri dell’associazione e gli esterni (per esempio regole, rituali, tatuaggi)? E, soprattutto, la criminalità organizzata, riguarda soltanto coloro che condividono codici, formule e patrimonio identitario, o costituisce piuttosto un network che coinvolge attori legali e illegali, trasversalmente ad ogni classe sociale?

L’ULTIMO LAVORO di Enzo Ciconte, Carte, coltello picciolo e carosello. I grandi processi di fine Ottocento alla mala vita e le origini della criminalità organizzata in Puglia (Manni, pp. 160, euro 16), prova a rispondere a questi interrogativi. Facendo leva sull’uso accurato e articolato delle fonti che lo contraddistingue, l’autore si cimenta in una ricostruzione storica relativa a due processi, che oggi si definirebbero «maxi», svoltisi a Bari nel 1891 contro 179 imputati e a Taranto due anni dopo contro 104 presunti membri della presunta malavita locale. Ciconte comincia il suo studio strutturando il quadro socioeconomico dell’epoca che funge da sfondo ai due processi. Nell’ultimo decennio dell’800, la Puglia risente fortemente della crisi economica dovuta alla guerra commerciale con la Francia e al parassita della filossera, elementi che svolgeranno un ruolo non secondario nell’aprire i rubinetti dell’emigrazione transoceanica da tutta Italia. La povertà, la disoccupazione, si diffondono in tutta la regione, suscitando la preoccupazione dei funzionari dello Stato, che vedevano con preoccupazione il pericolo potenziale rappresentato dal cortocircuito tra la stampa «sovversiva» e il malessere delle classi pericolose prodotte dagli sconvolgimenti della crisi. Ne consegue un’azione ad ampio raggio da parte delle forze di polizia, innescata dalle prefetture baresi e salentine, nonché alimentata dalle campagne stampa all’insegna di legge e ordine condotta dai settori perbenisti dell’opinione pubblica locale.
Dalla convergenza tra preoccupazioni politiche e panico morale, scaturiscono i due processi e le condanne in massa degli imputati, quasi tutti appartenenti al sottoproletariato locale. In merito alla selezione degli imputati e l’accertamento della criminalità, troviamo dei criteri altamente soggettivi. Il pubblico ministero, a Bari, ammette che parte degli elementi indiziari si basano su fonti giornalistiche, più di cronaca e opinione che non di inchiesta. Inoltre, in entrambi i casi, troviamo l’utilizzo di confidenti che loro stessi si definiscono camorristi, e che probabilmente svolgono il doppio gioco in funzione dei loro interessi del momento, miranti ad eliminare rivali potenziali ed effettivi. Dal racconto dei confidenti, emerge l’esistenza di un’associazione strutturata sul modello della ’ndrangheta, dalla quale copia rituali e gerarchie, oltre che la connivenza di alcune guardie penitenziarie. Inoltre, la pubblica accusa, in pieno clima culturale lombrosiano, si sforza di dimostrare che i tatuaggi che molti imputati presentano costituiscano un segnale tangibile del loro essere camorristi.

TUTTAVIA, alla luce dell’esperienza contemporanea, due criteri vengono sottovalutati. Uno riguarda la natura dei reati. Si tratta di reati per lo più da criminalità di strada, ben al di sotto, per qualità, dell’intermediazione economica che le consorelle calabresi, campane e siciliane, già esercitavano. Il secondo criterio riguarda l’assenza di notabilato tra gli accusati, laddove in Sicilia, qualche anno prima, aveva dimostrato, col caso Notarbartolo, l’esistenza di una liaison privilegiata tra mafiosi e settori delle classi dirigenti. Non a caso, le condanne, suscitano un cambio di rotta presso la pubblicistica perbenista, che vede nelle condanne una sorta di infiltrazione dello Stato nelle dinamiche sociali locali. Infine, un altro criterio, riguarda le modalità di affiliazione. Al contrario delle altre organizzazioni criminali, sono gli stessi aspiranti membri a inoltrare domanda, secondo una modalità che suscita più di un dubbio sulla segretezza che distinguerebbe l’organizzazione. La criminalità organizzata, quindi, non è diversa dagli altri fenomeni criminali. Esiste quando viene definita tale. Soprattutto, quando al potere conviene chiamarla così.

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