Visioni

Enrico Rava: «Non sono un talent scout, cerco la stessa comunione di intenti»

Enrico Rava: «Non sono un talent scout, cerco la stessa comunione di intenti»Enrico Rava e i Fearless Five – foto di Iolo Vasco

Incontri Incontro con il trombettista che si è esibito a Jazzaldia con il giovane quintetto dei Fearless Five

Pubblicato più di un anno faEdizione del 28 luglio 2023
Paola De AngelisSAN SEBASTIAN

Scende il sirimiri, la pioggerella nebulizzata, scende la pioggia, c’è una bomba d’acqua, ma il concerto continua e il pubblico applaude e se non può tirare fuori le mani da sotto gli impermeabili distribuiti all’ingresso della Plaza de la Trinidad, inneggia ai Fearless Five di Enrico Rava. Quello che colpisce alla vista e al suono è l’armonia tra i componenti di questo nuovo gruppo che ha un centro di gravità nel contrabasso di Francesco Ponticelli, una componente d’aria nel trombone di Matteo Paggi, un asse di opposti complementari nel temperamento elettrico e teso di Francesco Diodati alla chitarra e la batteria estatica ma incalzante di Evita Polidoro. Quello che colpisce sono gli sguardi che tutti si scambiano e la gioia di suonare insieme un repertorio basato su vecchie composizioni di Rava, il regista sapiente e intelligente, un musicista romantico, poetico e di grande eleganza.

The Fearless Five era il nome di un brano che Rava scrisse nel 1978 per il quartetto con Aldo Romano, Roswell Rudd e J.F. Jenny-Clark. Il quinto elemento del quartetto era la prima moglie di Rava che viaggiava con loro. «Quell’inverno andammo in tournée in Germania, Austria e Norvegia, ci spostavamo con due macchine, la mia e quella di Aldo, una Citroën DS. Un’auto stupenda quando va bene, ma se c’era un problema nessuno era capace di ripararla, perché all’epoca era una tecnologia molto avanzata. I meccanici la odiavano. Ogni giorno l’auto di Aldo si fermava in mezzo alla neve e io con la mia dovevo raggiungere la città più vicina per trovare un’officina. Appena dicevo che era una Citroën DS il meccanico esclamava Scheiß! Merda! Andavamo a prenderla, aspettavamo che la riparassero, gli organizzatori del concerto venivano a prenderci e un viaggio di 150 km diventava un’odissea».

CON I SUOI GIOVANI musicisti lei dice di avere un rapporto paritario. «Non sono un talent scout, la mia missione non è aiutare i giovani. Nei miei musicisti cerco la stessa visione, l’unità di intenti, che abbiano dodici o novant’anni. Ho suonato con Dino Piana che di anni ne ha 93, ma quando suona potrebbero essere 23. Molti miei coetanei non ci sono più, i pochi che restano continuano a suonare come facevano a quarant’anni. Io ho bisogno di essere sorpreso e di sorprendere me stesso. Sul palco quando c’è telepatia, c’è dare e avere, si crea una democrazia perfetta che esiste solo suonando. Alla mia età dovrei dare da mangiare ai gatti o guardare i cantieri per strada. Mi costa moltissimo prendere un aereo, viaggiare, suonare, ma vale la pena per il momento sublime che a volte si realizza quando si suona. A questo punto ogni concerto potrebbe essere l’ultimo per mia scelta, però con questo gruppo ho ritrovato la voglia di andare avanti e mi piacerebbe fare un disco con loro».

In conferenza stampa ha detto di non sentirsi nella stessa categoria di Herbie Hancock. «Nella storia del jazz Hancock ha avuto un ruolo essenziale come componente del quintetto di Miles Davis: hanno rivoluzionato il modo di sviluppare il jazz ritmicamente armonicamente. Io non ho fatto alcun tipo di rivoluzione. Quando nel 1952 Chet Baker esplose con il quartetto di Gerry Mulligan e vinse tutti i referendum in America, i suoi contemporanei erano Miles Davis, Clifford Brown, Dizzie Gillespie, Clark Terry, grandissimi trombettisti. Per Chet vincere quei referendum si rivelò dannoso perché tutti i musicisti neri cominciarono a odiarlo, cosa che non meritava perché era un genio. Quando ieri mi hanno dato il premio del Jazzaldia, ho pensato a Chet che diceva: non sono in quella categoria. Io non mi sottovaluto, sono molto autocritico ma ho una buona considerazione di me stesso».

ALLORA qual è il suo contributo alla storia del jazz? «Ho sempre suonato qualcosa di vero, non sono mai stato influenzato dalle mode. Sono sempre andato avanti, ho fatto musica non rivoluzionaria, ma diversa dagli altri. Non gioco a fare l’italiano a tutti i costi, o l’europeo, il non americano, perché per me il jazz nasce in America. Però dentro la mia musica c’è una componente italiana e penso di poter rivendicare una mia originalità».

Come la definirebbe questa componente? «È spontanea. Mia madre suonava il pianoforte classico, era bravissima, ho sentito musica fin da prima di nascere, mio fratello aveva una grande collezione di dischi. Amo musica molto eterogenea: la classica, quella brasiliana; ho vissuto molto in Sudamerica e conosco benissimo il tango, mi piace la musica del Burundi, dei pigmei, quella indiana, il rock, il funky, Michael Jackson e Prince… Tutte queste cose sono entrate a far parte di me, quando scrivo i temi possiedono certe caratteristiche proprie e non sono più americani al 100%».

A QUESTO PUNTO Rava si lancia in una lezione di storia della musica: «È vero che il jazz è una musica in gran parte nera, ma tutta la musica popolare del Novecento, nasce dall’incontro di varie componenti a New Orleans, dove c’erano molti francesi e siciliani. La presenza siciliana era talmente forte che esisteva una linea diretta Palermo-New Orleans. Il primo disco di jazz del 1917 fu di Nick La Rocca, autore di Tiger Rag, uno standard che hanno inciso in molti. Nella Dixieland Jass Band anche il batterista era siciliano, si chiamava Tony Sbarbaro. Il jazz nasce dall’incontro tra un ricordo vaghissimo di come si porta il tempo in Africa: contrariamente a quello che è accaduto sotto la dominazione spagnola e portoghese, che permetteva agli schiavi di parlare la loro lingua, mantenere la religione, le danze, musica, gli inglesi hanno cancellato tutto. Agli schiavi rimase solo il modo di portare il tempo che è molto diverso dal nostro: in Europa è molto più rigido, tranne in alcune musiche popolari come quella irlandese. In Africa il ritmo è come una palla da basket, ha una notina in più: p-tà, p-tà. A New Orleans questo ricordo si fonde con la musica sacra inglese, quella da salotto francese, la musica per banda del sud Italia, l’opera, di cui Louis Armstrong era un grande appassionato. Nasce così una musica in cui la componente nera è predominante, ma anche quella europea è presente. Uno dei motivi per cui il jazz già agli inizi degli anni Venti, quando è arrivato in Europa, ha conquistato il pubblico fu per quella componente in cui il pubblico si identificava. Quell’incontro a New Orleans ha innescato una rivoluzione enorme, non solo nella musica ma nella cultura del Novecento, la danza, la musica contemporanea europea, il cinema…»

Non sono mai stato influenzato dalle mode e non gioco a fare l’italiano, però dentro la mia musica c’è una componente del Bel paese. Posso rivendicare una mia originalità

LA LETTERATURA «Ecco, in letteratura tutti pensano ai Beat che invece non c’entrano niente perché non avevano capito nulla. I Beat erano affascinati dal mondo del jazz, le droghe, il fumo, i club, lo stile di vita. Quando Kerouac parla di musica ti fa drizzare i capelli. Chi ha capito tutto era Julio Cortázar. Dico sempre una cosa provocatoria: l’unico scrittore jazz è Proust, per le concatenazioni di pensiero. L’improvvisazione jazz funziona allo stesso modo. Molti pensano anche a Joyce e invece no, perché il jazz è molto leggibile». Non è Finnegans Wake. «No. Il jazz è molto comprensibile, ad esclusione di un periodo negli anni Sessanta quando una parte del free jazz divenne incomprensibile perché su quel carro, in cui c’erano geni come Ornette Coleman, siccome non esistevano più le regole sono saltati anche gli incapaci. In Europa si pensava che il free jazz fosse la musica della rivoluzione, di sinistra, mentre il jazz ortodosso era di destra. Si arrivò al punto che a Umbria Jazz Count Basie non lo fecero salire sul palco, accusandolo di essere una spia della CIA. Stessa cosa accadde a Chet Baker: dovette intervenire Elvin Jones, il batterista di Coltrane. I grandi concerti rock all’epoca erano vietati e tutti coloro che d’estate seguivano quegli eventi si sono riversati su Umbria Jazz che era appena nato. Di colpo ci ritrovammo a suonare davanti a un pubblico enorme. Io ho suonato per la prima volta nel 1976 con il mio gruppo americano davanti a sessantamila persone a Terni. Di quelle forse un centinaio erano davvero interessate». Fu una grande divulgazione culturale. «Per noi è stato ottimo, quando è finita quella follia una piccola parte di quel pubblico enorme è rimasta, la nicchia del jazz è raddoppiata o triplicata. Bastava mettersi il fazzoletto rosso e alzare il pugno per avere il successo assicurato. Sam Rivers quando arrivava in Europa sembrava Che Guevara, e così facendo aveva successo in Italia e in Francia. A Botteghe Oscure c’era il gruppo Amici dell’Unità che si occupava delle feste e cominciarono a fare concerti jazz importanti: ad esempio portarono Mingus per dodici date con un cachet abbordabile. Io vivevo ancora a New York e feci diciotto concerti, alla festa nazionale dell’Unità a Firenze c’erano trentamila persone. Tutto nacque da Umbria Jazz perché prima alle feste dell’Unità i concerti jazz non c’erano».

CHE NE SAREBBE stato di Enrico Rava senza Gato Barbieri? «Non ne ho idea. È stato il musicista più importante della mia vita. Era la fine degli anni Cinquanta, il mondo del jazz non era come adesso: in Italia di musicisti professionisti c’era solo Nunzio Rotondo, bravissimo trombettista, molto amico di Piero Piccioni, il cui padre era ministro, così aveva ottenuto un programma alla radio. C’era Oscar Valdambrini. Tutti lavoravano con l’orchestra della Rai, accompagnavano i cantanti nei club e nelle balere e si ritagliavano degli spazi per il jazz. Non esisteva il mestiere di musicista jazz, eravamo tutti dilettanti. Io lavoravo nell’azienda di famiglia ed ero molto infelice. Qualcuno portò Gato a un piccolo concerto che avevamo organizzato e suonando con un musicista del suo livello anch’io suonai meglio: ho capito che cosa significava suonare, mi ha dato fiducia. Gato mi chiamò per suonare con lui a Roma e da quel momento cambiò tutto. Ho capito che la vita poteva essere bellissima. Senza di lui avrei continuato a lavorare nell’azienda di mio padre che sarebbe sicuramente fallita perché non me ne importava niente e non capivo nulla di cose commerciali. Passavo le notti a suonare e a chiacchierare fino alle 5, fumavamo, poi alle 8 dovevo andare al lavoro. Arrivavo in ufficio, mi chiudevo in bagno e dormivo seduto sul WC. Grazie a Gato lasciai il lavoro e mio padre non mi parlò per quattro o cinque anni». Nonostante la piccola differenza di età, si potrebbe dire che Gato ha avuto una funzione paterna? «Sicuramente è stato un fratello maggiore. Quando me ne andai fu una tragedia. Recuperai il rapporto con mio padre quando lui e mia madre vennero a fare un viaggio negli Usa, vennero a cena a casa mia a New York e lui vide che avevo un lavoro e un conto in banca, che non facevo il musicista perché non avevo voglia di lavorare – che è vero – perché volevo drogarmi e svegliarmi tardi la mattina, io che per anni mi sono alzato all’alba per prendere aerei».

RAVA E’ AFFEZIONATO a San Sebastián ed è molto affascinato dalla cultura basca e dall’euskera, una lingua che non appartiene a nessun ceppo linguistico e probabilmente è la più antica d’Europa. Gli dico le poche parole che so: kaixo e agur per salutarsi, egun on (buongiorno), ongi etorri (benvenuto), eskerrik asko (grazie), zorionak (auguri). Lui si è appuntato come si dice birra: garagardoa. Il Jazzaldia, dove ha suonato anche con Gato Barbieri nel 2001, ha 58 anni, che equivale all’incirca alla durata della sua carriera. Come riassumerebbe la storia del jazz degli ultimi sessant’anni? «L’ultima grande rivoluzione del linguaggio del jazz l’hanno fatta Ornette Coleman e Cecil Taylor. Da allora in poi non c’è più stato un vero sviluppo del linguaggio jazz, si è metabolizzata tutta la storia del genere, si è recuperata la tradizione di New Orleans immettendola nella musica moderna, si sono semplificate le cose di Ornette, ma non c’è più stato niente di rivoluzionario. Sono scomparsi i grandi che hanno inventato il jazz e non sono stati sostituiti da altri. Oggi il livello artistico è sceso, mentre il livello tecnico e le conoscenze teoriche sono cresciute in modo stratosferico. Ma la magia di quel momento è equiparabile solo ad altri momenti della storia dell’arte come il Rinascimento, o il neorealismo nel cinema: nell’arco di trenta, quarant’anni ci sono stati geni pazzeschi, a partire dal più grande di tutti, Louis Armstrong, poi Bix Beiderbecke, Lester Young, Coleman Hawkins, Charlie Parker, Miles Davis, Dizzie Gillespie, Sonny Rollins. Tanti geni dalla vita grama che hanno fatto cose mai fatte prima, il pubblico ascoltava cose inaudite e si creava una forza incredibile. Oggi un musicista come Steve Lehman fa una musica molto difficile, straordinaria dal punto di vista tecnico-teorico, ma non mi emoziona, non mi commuove. Se io oggi avessi 17-18 anni e ascoltassi quel jazz, non mi appassionerebbe e non diventerei un trombettista. Io ho cominciato a suonare la tromba perché avevo centinaia di dischi e perché nel 1956 a Torino vidi un concerto di Miles Davis con Lester Young. Avevo tutti i suoi album, ma non immaginavo che dal vivo mi avrebbe colpito in modo tale. Dopo un paio di settimane ho comprato una tromba e ho imparato a suonarla. Non mi accadrebbe mai con quelli che ci sono in giro oggi».

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