Il 9 settembre è uscito per la Ecm l’album The Song Is You, duetto tra Enrico Rava, al flicorno, e il titolato pianista americano Fred Hersch. Il territorio d’incontro prevede ballad, brani originali (The Trial, Child’s Song) due pezzi monkiani e una traccia totalmente improvvisata. Animati da una palpabile tensione interpretativa, Rava ed Hersch evitano clichés e luoghi comuni, creando una musica «nuova» che mette al centro sentimenti, rischio, emozioni, fantasia. Della collaborazione, rodata dal vivo, e dell’album parliamo con il grande trombettista italiano.

C’è un disco di Hersch del 2001 che si intitola «Songs Without Words»: quest’espressione potrebbe essere lo slogan del lavoro che avete inciso?

Penso che siamo entrambi molto lirici e melodici, anche quando facciamo improvvisazione. Sì, potrebbe essere.

Ascoltando l’album si avvertono a volte una sorta di «riflessioni sonore» sul mood dei brani, altre volte ispirate versioni di standard, da Kern a Jobim.

I cosiddetti standard, suonati da 60/70 anni, diventano quasi una composizione del musicista che li suona. Se uno sente Old Devil Moon nella versione di Sonny Rollins diventa un suo brano, a differenza della musica classica dove è la composizione che conta. Spessissimo si suona su temi che sono un punto di partenza. Quindi ogni musicista gli dà un’impronta sua e quasi se ne appropria. Basti pensare a Stella by Starlight che diventa una composizione di Miles Davis e uno dei momenti più alti della musica del ‘900.

Come ti approcci al materiale originale di Fred Hersch ?

Dipende dal brano. Per esempio di Child’s Song cerco di dare un’interpretazione, a parte il tema che eseguo all’unisono. Per il solo – la prima volta che lo abbiamo suonato insieme, dopo il tema Hersch ha cominciato a fare una specie di ritmo su un tasto del registro acuto – a me è venuto spontaneo di creare frasi molto chiare, quasi infantili. Mi sono sentito vicino a Don Cherry quando inventava delle melodie semplicissime, e ho avuto questo ricordo mentre stavo suonando. Da lì ho cominciato a svilupparle fino a quando ci siamo mossi in una dimensione del tutto diversa, in cui il pianista addirittura mi ha lasciato solo. Devo dire che per quanto riguarda i brani di Fred alcuni lasciano una libertà totale, altri sono armonicamente molto complessi. Io normalmente compongo pezzi che sono semplici nelle armonie e, in più, a me piace molto improvvisare quasi dal nulla; è un’attitudine che viene dalle mie esperienze nei primi anni ’60 con il quartetto di Steve Lacy, poi a New York nel giro del free. Quando abbiamo registrato eravamo in un auditorio dall’acustica meravigliosa (auditorio Stelio Molo, Lugano, ndr); ad un certo punto, tra un pezzo e l’altro io ho cominciato a fare delle note ripetute e lui mi è venuto dietro ed è nato questo flusso sonoro dove abbiamo improvvisato in modo «free» ma quasi come se stessimo dipingendo insieme un quadro. Improvvisation è, per me, il clou del disco. Fred Hersch è uno che ascolta tantissimo quando si suona insieme: ha proprio idea di come suonare con gli altri e non è normale: è raro. Per me la cosa principale è il dialogo, l’ascolto reciproco. L’ho veramente imparato suonando free con Lacy, con Roswell Rudd.

 

A L’Aquila hai di recente sperimentato un duo con una giovane violinista, Anais Drago; che ci puoi dire di questa esperienza? Pensi che possa svilupparsi?

A me è piaciuto molto dialogare con Anais Drago, suoneremo ancora ad Umbria Jazz Winter. Lascio che crei delle situazioni ed io ci improvviso sopra; un po’ come ho fatto con il chitarrista che fa musica elettronica Christian Fennesz e sarò con lui a JazzMI. È quello che a me piace fare, alla fine. Comunque sono molto contento per questa esplosione di musiciste bravissime. La Drago è incredibile. Un’altra che mi ha colpito tanto è la batterista Francesca Remigi. Ho suonato ultimamente con Evita Polidoro, un’altra batterista; c’è la sassofonista Sofia Tomelleri… A parte le musiciste che hanno già più esperienza – Stefania Tallini ad esempio – c’è una nuova generazione femminile fantastica. È un buon segno in tutti i sensi, un’apertura mentale da parte del mondo del jazz che è sempre stato un po’ machista.

L’uomo Enrico Rava come sta vivendo questo drammatico 2022, tra pandemia e guerra?

Lo sto vivendo da incazzato. Per quanto riguarda la pandemia, mi sono vaccinato per scelta ma se lo avessi dovuto fare per obbligo non lo avrei fatto. Secondo me la pandemia è stata gestita molto male e c’è stata una perdita di democrazia abbastanza pesante. Quanto alla guerra non ne parliamo neanche: sono favorevole a dare tutti gli aiuti umanitari possibili e immaginabili all’Ucraina, contrario a mandare le armi, contrario alle sanzioni che sono contro di noi.