Non è un progetto politico alternativo a quello del governo dell’Avana la motivazione che ha indotto centinaia di cubani a scendere in strada in varie città di Cuba la scorsa domenica.
È la stanchezza – ma anche l’ira – di una popolazione che da troppo tempo deve affrontare black out che durano anche mezza giornata e «l’irregolare distribuzione» dei prodotti alimentari di base e i costi eccessivi dei medesimi. La causa prima delle proteste , con buona approssimazione, è stata quella espressa a voce alta: fame e disperazione per i lunghi periodi di black out.

Creare «fame e disperazione» nella popolazione cubana è precisamente l’obiettivo espresso nel famoso Memorandum del 1960 con cui l’allora segretario di Stato , Lester Mallory, proponeva di applicare l’embargo unilaterale degli Usa contro Cuba.
Ha sostanzialmente ragione dunque il presidente Miguel Díaz-Canel quando accusa l’ambasciata nordamericana all’Avana di essere implicata nelle proteste. Probabilmente funzionari diplomatici non hanno partecipato direttamente a organizzarle. Semplicemente perché non ne hanno bisogno. La legge Helms- Burton e le successive misure imposte da Trump agiscono da 60 anni per causare «fame e disperazione» nella popolazione cubana e indurla a ribellarsi.

Democrazia e diritti umani, gli slogan di Washington, dunque, nulla hanno a che vedere con l’embargo. Il blocco economico, commerciale e finanziario degli Usa ha una dimensione extraterritorial condannata da anni dalla quasi totalità dei paesi membri dell’Onu ed è incompatibile con la sovranità nazionale di Cuba.
Se il presidente Biden vuole davvero «agire in favore del popolo cubano» ha una soluzione semplice e immediata: togliere le sanzioni contro Cuba, a cominciare dalle più brutali – le 243 misure strangolatrici aggiunte da Trump – fino a smantellare la legge Helms-Burton.

Lo stesso si può dire della comunità cubana all’estero che non sia direttamente nel libro paga delle varie istitutuzione legate o finanziate dalla Cia: nessun cubano deve essere sottoposto a un embargo che abbia l’appoggio di cubani. Visto che questa forma di embargo, in quanto a violenza, è appena un gradino al di sotto dell’aggressione militare.
Detto questo, non si può comprendere la gravità della crisi a Cuba senza mettere in causa l’incapacità del partito-governo-Stato di gestire l’economia del paese in modo da raggiungere l’indipendenza economica . Oggi i livelli di importazione di alimenti si aggirano attorno all’80% del consumo nazionale. I dati pubblicati dall’Onei indicano che la grande maggioranza dei cubani usa l’80% delle loro entrate per pagare vitto e trasporti. E la parte più debole -i pensionati soprattutto – spesso non riesce ad aver garantita un’alimentazione e una vita decente.

In queste condizioni è chiaro che la protesta civile e pacifica è legittima. Un passo, importante, in questa direzione è stato fatto dal governo almeno nella prima protesta avvenuta a Santiago di Cuba. Qui, le autorità hanno reagito in forma corretta rispondendo – almeno a livello di discorsi – alle esigenze della popolazione. Il presidente Díaz-Canel ha affermato che «le autorità sono disposte a prestare attenzione ai reclami del nostro popolo». Dunque a aprire un dialogo invece che usare la repressione.

Il partito-stato se vorrà mantenere il consenso sociale dovrà tener conto di forme pacifiche e legittime di esprimere il proprio malcontento da parte dei cittadini. «E a cercare di trovare forme politiche per gestirle», sostiene il gruppo editoriale di La joven Cuba . «Una di queste è riconoscere con trasparenza gli errori di politica interna che hanno indotto una parte della popolazione alla protesta di strada come unica risorsa per far sentire la propria voce».