Nel 1970 Richard Sennett pubblicò The Uses of Disorder: Personal Identity and City Life, tradotto solo nel 1999 da Costa & Nolan e risultato profetico alla luce di ciò che accade oggi nelle nostre città. In anticipo sulle attuali trasformazioni urbane, causate dall’ingresso massiccio della finanza, in Usi del disordine si esaminavano i cambiamenti della città imposti dal settore immobiliare, che già preannunciavano i tempi del nuovo «ordine» metropolitano con i mutamenti materiali e sociali di interi quartieri con i loro abitanti. L’industria del real estate si organizzava per «eliminare la vita della città» fino a essere responsabile di quel fenomeno estremo che oggi chiamiamo gentrificazione.

DI QUEL PRIMO SAGGIO Sennett mantenne sempre integra la sua tesi della «città aperta», indeterminata e ricca di «perturbazioni» per contrastare la rigidità dell’urbanistica corrente, succeduta al «fallimento» della pianificazione modernista che si connotava ancora, alla fine degli anni Sessanta, quando il sociologo americano studiava urbanistica ad Harvard, di nutrite dosi di universalismo e umanesimo.
Altrettanto convinta si è conservata in lui l’idea che le persone debbano «considerare la loro identità meno assoluta, meno definibile», affinché ognuno possa raggiungere quell’«autodisordine interiore» necessario per costruire una migliore società civile.  Si deve all’architetto Pablo Sendra, docente alla londinese Bartlett School of Planning, direttore dello studio andaluso Lugadero e co-fondatore della rete internazionale CivicWise, ideatrice di progetti d’innovazione civica, l’avere proposto a Sennett di ritornare sui temi che l’avevano appassionato da giovane, quando s’interrogava su cosa procurasse all’individuo la città nelle sue molteplici manifestazioni e singolari esperienze.

NEL SAGGIO Progettare il disordine (Treccani, pp. 192, euro 21) Sendra lascia al sociologo statunitense il compito di inquadrare sul piano storico e teorico le ragioni della bontà di costruire «territori di passaggio, oggetti incompleti e narrazioni non lineari» che definiscono la «città aperta», dalle «infrastrutture flessibili» che, nella loro configurazione fisica, consentirebbero di favorire quei processi volti a «coltivare una società civile urbana». Nella parte centrale del libro invece spetta all’architetto illustrare le linee guida che costituiscono il «sistema aperto» da attivare nello spazio urbano, in particolare quello pubblico.

LA CONVINZIONE di entrambi gli autori, espressa con chiarezza nel dialogo condotto con lo storico della città Leo Hollis nella parte finale del saggio, è che sia fondamentale indagare l’«interrelazione tra ciò che fa la pianificazione formale e ciò che accade dal basso». Solo, infatti, alterando le regole di un sistema istituzionalizzato, sovvertendo la consuetudine di pratiche chiuse e ripetitive, ci si può aprire alla complessità e all’incompiuto. Condizioni per stabilire con un gruppo di persone (o con una comunità) un proficuo rapporto che sperimentalmente giunga a un progetto co-prodotto, perciò democratico. Si tratterà allora di «progettare il disordine» per migliorare la qualità del vivere delle persone. Queste vivono per Sennett su due dimensioni, come Benjamin fece intendere: «una che è molto protetta e intima, e un’altra che è molto esposta e su scala più vasta». Dalla combinazione dei due livelli, le persone affrontano «l’ambiguità, la difficoltà e l’ignoto per esplorare l’evento inaspettato anziché difendersi da esso». La città con la sua densità e varietà, ovvero la moltitudine e l’imprevedibilità, è il luogo dove si svolge questo agire esperienziale, permettendo l’esercizio di quel «muscolo morale» che consiste nel «meno sé, più altro», come a Sennett insegnò il suo mentore, lo psicoanalista Erik Erikson.

MOLTI SONO GLI ESEMPI concreti portati all’attenzione del lettore dai due coautori per testimoniare la fattibilità delle loro tesi. A Londra, nel quartiere di Spitalfields, i sarti ebrei dell’est nel XIX secolo sostituirono i tessitori ugonotti francesi insediatisi in quello precedente, come a metà del secolo scorso i piccoli imprenditori indiani presero il posto degli operai edili delle Indie occidentali arrivati lì ai primi del ’900, fino a quando il quartiere non divenne signorile e questi furono allontanati, ma tutto ciò non sarebbe stato possibile se non ci fosse stato un «coacervo di forme edilizie flessibili».
È questo il motivo che spinge Sennett e Sendra a credere che contrastare la città bloccata e chiusa consista nel favorire diffusi e lenti cambiamenti spaziali invece di «cancellare» le differenze con sbrigative sostituzioni e alterazione degli ambienti urbani come in troppi sembrano ormai credere. In ogni città del mondo la crescita avviene attraverso «conflitti e dissonanze» e le infinite possibilità offerte dall’interazione sociale tra persone è il presupposto per definire uno «spazio democratico».