Elisa Giomi: «I media stanno cambiando, bisogna riscrivere i copioni»
Elisa Giomi
Italia

Elisa Giomi: «I media stanno cambiando, bisogna riscrivere i copioni»

25 novembre Parla la commissaria Agcom. Il discorso giornalistico e l'immaginario della violenza di genere
Pubblicato 11 mesi faEdizione del 25 novembre 2023

Elisa Giomi, in quanto Commissaria Agcom e autrice di testi come «Relazioni brutali. Genere e violenza nella cultura mediale» (Mulino, 2017), quali criticità riscontra nei modi cui viene rappresentata la violenza sulle donne?
Partirei dai dati positivi, ovvero la trasformazione del discorso giornalistico. Fino a dieci anni fa la tipologia più diffusa di femminicidio, ovvero quella per mano del partner o dell’ex, aveva una copertura minima rispetto alle morti di donne aggredite da uno sconosciuto nello spazio pubblico. La fotografia quindi era completamente rovesciata rispetto alla realtà ed era un dato allarmante perché sottorappresentando la violenza nelle relazioni intime si contribuiva alla sua normalizzazione. Ora fortunatamente la copertura giornalistica rispecchia i dati statistici. Alcune incrostazioni culturali però sono dure a morire, in particolare la rivittimizzazione, ovvero l’attribuzione alla donna della responsabilità della violenza. In Italia continua ad essere un problema serio e interessa tanto il discorso giornalistico e mediale quanto quello giudiziario, perché le due istituzioni sono notoriamente contigue, ovvero ci sono delle forme di concettualizzazione che filtrano dall’una all’altra. Non è un caso che la Corte europea dei diritti dell’uomo abbia richiamato l’Italia emettendo dei pronunciamenti in cui sottolineava il persistere nei processi per violenza sessuale di stereotipi che rivittimizzano la donna.

Siamo così attaccati agli stereotipi di genere perché sono un insieme di istruzioni per l’uso oltre le quali c’è l’indefinito, la mancanza di punti di riferimento

C’è dunque una sensibilizzazione nel discorso pubblico, ma le istituzioni sono rimaste indietro?
Di sicuro c’è più attenzione ma gli stereotipi sono ancora diffusissimi e gli operatori della comunicazione, della giustizia e delle istituzioni sono immersi come siamo tutti e tutte dentro a un brodo culturale da cui non è semplice emanciparsi. La produzione giornalistica paga poi i tempi troppo concitati, con mezzi e risorse sempre più esigui, su cui fiorisce lo stereotipo. Quest’ultimo infatti è una scorciatoia cognitiva, una forma di rappresentazione della realtà semplificata. E quando si è in una situazione di affanno, di velocità, le formulazioni semplificatorie si prestano bene. Quindi non c’è necessariamente una malizia ma a volte un’inerzia, una riproduzione un po’ automatica. Ci sono poi però delle prassi giornalistiche che secondo me andrebbero proprio cambiate. Non riusciamo a comprendere che nel caso di un femminicidio c’è una asimmetria strutturale, lui può ancora parlare e far arrivare la sua voce, lei non è più in grado di raccontare cosa è accaduto, cosa voleva o non, perché è successo. Bisogna pensare bene a chi si dà voce quando manca ancora una verità giudiziaria.

Gli stereotipi di cui parlava si fondano sull’immaginario, e i media hanno un ruolo fondamentale nei costruirlo. Qual è la situazione attuale?
Nei telegiornali ci sono evoluzioni importanti, per esempio sull’alterizzazione della violenza, ovvero il fatto che venga rappresentata sempre come colpa di altri: i «mostri», i pazzi o alcuni gruppi sociali specifici – normalmente gli immigrati – mentre sappiamo che è un fenomeno di tipo strutturale e quindi non può essere derubricato ad aberrazione del singolo o a prodotto di una cultura diversa, né tanto meno a una questione di classe sociale, di marginalità, perché è un fenomeno trasversale. Eppure questo schema che io chiamo «esorcismo» viene praticato proprio per collocare la violenza lontana da noi: «non riguarda noi, uomini evoluti bianchi».

Vengono poi fornite altre spiegazioni: l’abbandono da parte della famiglia, mancanza di empatia, troppi social, la generazione interrotta dal Covid…eppure i dati Istat appena usciti non lasciano spazio a dubbi: quest’anno, in Italia, nel 92,7% dei casi delle donne uccise il colpevole è un uomo, nel 94,4% degli uomini uccisi il colpevole è sempre un uomo. Significa questo che i maschi sono intrinsecamente cattivi, che c’è un problema di ormoni, di fisiologia? No, c’è una costruzione culturale che legittima l’esercizio della violenza, anche letale, molto più per gli uomini che non per le donne. Ai giovani viene tramandata come una risorsa a cui attingere.

C’è qualcosa che l’ha colpita in maniera particolare nel caso di Giulia Cecchettin?
Sicuramente le parole della sorella Elena, che veramente sta trasformando il dolore in lotta, mentre un fronte più maschile che femminile si affretta a stigmatizzare le forme in cui Elena parla e si presenta. Si sentono poi metafore belliche e divisive come quella della «guerra dei sessi», che racconta di come le relazioni tra uomini e donne siano troppo spesso vissute in termini di prevaricazione e competizione.

Quello si sta cercando di fare è eliminare dalle relazioni delle componenti tossiche che producono infelicità. Ma dove c’è riconoscimento reciproco si aprono degli spazi di libertà che forse ci fanno paura. Siamo così attaccati agli stereotipi di genere perché funzionano da copioni, da sceneggiature, sono un insieme di istruzioni per l’uso oltre le quali c’è l’indefinito, la mancanza di punti di riferimento. Gli stereotipi che riguardano gli uomini hanno un contraltare negli stereotipi introiettati dalle donne e quindi c’è un grande lavoro da fare, un percorso che deve coinvolgere tutti i generi.

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