Non ha mancato di cogliere l’occasione il ministro degli Esteri egiziano Sameh Shoukry. Incontrando domenica il suo omologo francese Stephane Sejourne, ha di nuovo sottolineato il pericolo di un conflitto più ampio in Medio oriente se non sarà raggiunto subito un cessate il fuoco a Gaza. «La guerra a Gaza, le minacce che vediamo nei confronti della navigazione nel Mar Rosso, le operazioni militari che hanno avuto luogo in Siria e Iraq, nonché la situazione militare ai confini israelo-libanesi, sono tutti segnali dell’escalation della situazione che sta scivolando verso un conflitto più ampio», ha avvertito Shoukry, sottolineando il pericolo che una avanzata israeliana sulla città di Rafah spinga centinaia di migliaia di palestinesi a riversarsi nel Sinai dando inizio a una nuova Nakba. In questi giorni gli egiziani, che profughi palestinesi in casa proprio non li vogliono, lavorano a rafforzare il muro e le recinzioni alzate lungo la frontiera con Gaza.

Più che a Sejourne, Shoukry si è rivolto al Segretario di stato Usa Blinken che ha dato inizio alla sua quinta missione nella regione. L’Egitto più di altri sta subendo i riflessi dell’offensiva militare israeliana. E non solo alla sua porta orientale. Nel Mar Rosso l’Operazione Prosperity Guardian degli alleati Usa-Uk, con la collaborazione di altri paesi, contro i ribelli yemeniti Houthi che prendono di mira i mercantili diretti ai porti israeliani, sta avendo forti ricadute sull’economia egiziana senza conseguire risultati decisivi. Il Mar Rosso è la porta d’accesso al Canale di Suez che fornisce all’Egitto – alle prese con una pesante crisi finanziaria – gran parte delle sue entrate in valuta estera assieme al turismo. Sulle sue rive, infatti, si trovano alcune delle località balneari egiziane più famose. La caduta di detriti di missili e droni Houthi abbattuti sul Sinai è un altro incubo per la vacillante industria del turismo egiziana.

Il traffico che attraversa Suez – per il quale prima del 7 ottobre passava il 12% del commercio globale – è diminuito del 40% poiché molti mercantili ora girano attorno al Capo di Buona Speranza. Il rallentamento della navigazione nel Mar Rosso significa anche una diminuzione delle importazioni del paese, in particolare di carburante, cibo e materie prime necessarie all’industria. Al Cairo, perciò, sale l’insoddisfazione per la politica degli Stati uniti che non rassicura allo stesso modo tutti gli alleati arabi ma privilegia l’Arabia saudita e il Golfo. Il presidente El Sisi e il suo entourage segnalano invano alla Casa Bianca che sarebbe meno costoso per tutti nella regione se Washington cercasse di porre fine alla guerra e al lungo assedio israeliano al popolo di Gaza, imponendo inoltre al premier Netanyahu la nascita di uno Stato palestinese nei Territori occupati del 1967.

L’Egitto, che deve tenere conto anche dell’instabilità in Libia e Sudan alle sue porte, a mezza bocca critica la debole performance diplomatica dell’amministrazione Usa. Debolezza che, unita al sostegno quasi incondizionato di Israele, potrebbe sfociare in uno scontro militare aperto con l’Iran che l’Egitto non vuole. El Sisi da anni lamenta anche il mancato intervento di Washington sull’Etiopia che, completando il progetto della Diga del Grande Rinascimento, ha ridotto il flusso delle acque del Nilo a disposizione degli oltre cento milioni di egiziani. E la settimana scorsa ha espresso il suo sostegno al presidente somalo Hassan Sheikh Mohamud per la firma da parte dell’Etiopia dell’accordo con il Somaliland che concede ad Addis Abeba un porto e una base sul Mar Rosso. Un’altra crisi che gli egiziani attribuiscono al silenzio degli Stati uniti nei confronti delle politiche dell’Etiopia.