Ecuador, un miliardo di barili di petrolio restano sotto terra
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Ecuador, un miliardo di barili di petrolio restano sotto terra

Fossili Gli ecuadoriani, dopo decenni di lotte, con un referendum hanno imposto alla Petroecuador di chiudere i pozzi e di non poterne aprire di nuovi
Pubblicato circa un anno faEdizione del 28 settembre 2023

Oltre un miliardo di barili di greggio resterà sepolto sottoterra. Una vasta porzione della foresta amazzonica di circa 78 mila ettari, tra le aree protette più grande dell’Ecuador e più importanti per la biodiversità, è salva. Lo hanno deciso i cittadini ecuadoriani il 20 agosto, dopo una battaglia durata un decennio contro l’apertura di nuovi pozzi nel Parco Nazionale di Yasuní, nel nord-est del Paese. Quest’area della foresta amazzonica dove vivono i popoli indigeni, alcuni in isolamento volontario, è stata dichiarata nel 1989 riserva mondiale della biosfera dall’Unesco. Ha un’estensione totale di più di un milione di ettari, collocati tra le province di Orellana e Pastaza. Con la decisione popolare presa il 20% del totale delle riserve di petrolio del Paese non verrà estratto. La compagnia statale Petroecuador dovrà chiudere i pozzi esistenti e non potrà aprirne di nuovi. La domanda posta ai cittadini è stata: «Vuoi che il governo ecuadoriano mantenga le riserve di petrolio dell’Itt, conosciuto come Bloque 43, nel sottosuolo indefinitivamente?». Il 58,9% degli oltre 10 milioni di cittadini ha risposto di sì. In accordo con quanto stabilito dalla Corte costituzionale, il governo avrà massimo 18 mesi dal risultato referendario per renderlo esecutivo.

«UNA VASTA MAGGIORANZA DI ECUADORIANI con questa decisione ha scelto anche di proteggere i diritti delle popolazioni indigene Tagaeri, Taromenane e Dugakaeri, che vivono in isolamento volontario – fa sapere Amazon Watch, l’organizzazione non governativa con sede in California – si stima – spiega a L’Extraterrestre – che ci siano 1,67 miliardi di barili di greggio nei giacimenti Itt, dove 225 pozzi attivi producono attualmente 54 mila 800 barili al giorno. In totale erano previsti più di 500 pozzi. Ma il voto popolare ha vietato l’apertura di tutti i nuovi pozzi e impone alla compagnia petrolifera statale Petroecuador di chiudere i pozzi in produzione e di smantellare e rimuovere tutte le infrastrutture petrolifere entro un anno. Il governo è ora obbligato a fermare le attività e la produzione di petrolio, a smantellare e rimuovere le infrastrutture e a bonificare e ripristinare l’area entro un anno, come ordinato dalla Corte costituzionale».

I GIACIMENTI, NOTI CON L’ACRONIMO ITT, ovvero Ishpingo, Tiputini e Tambococha, erano divenuti un noto caso internazionale già nel 2007. Quell’anno l’allora presidente Rafael Correa lanciò l’iniziativa Yasuní Itt, che prevedeva il blocco dell’estrazione di petrolio con l’ausilio della comunità internazionale che avrebbe dovuto contribuire devolvendo al Paese latinoamericano la metà degli introiti che avrebbe guadagnato sfruttando i giacimenti.

LA PROPOSTA, CONSIDERATA VISIONARIA, AVREBBE prevenuto la deforestazione che avrebbe inciso sull’emissioni di anidride carbonica, giovando all’intero Pianeta. L’importo da incassare era di 3 miliardi e 600 mila dollari, ma nel 2013 nelle casse dello Stato erano pervenuti solo 13 milioni di dollari, ovvero lo 0,37% del totale. «Non chiedevamo la carità, era una questione di corresponsabilità nella lotta contro i cambiamenti climatici. Il mondo ci ha deluso», disse nel 2013 Correa. Il 15 agosto di quell’anno decise di abbandonare l’iniziativa aprendo alle estrazioni petrolifere. Vennero raccolte circa 760 mila firme ma le autorità governative preposte ad accertarne l’autenticità non le ritennero valide. Per ottenere un certificato di validità delle firme raccolte si è dovuto attendere il 2020. Nel frattempo già dal 2016 erano iniziate le perforazioni. La richiesta per un referendum popolare era già stata formulata nel 2013, dopo la decisione dell’allora presidente, da un gruppo di organizzazioni ambientaliste riunite col nome di Yasunidos. Dopo numerosi cavilli giuridici, il 9 maggio di quest’anno la Corte costituzionale lo ha autorizzato. Il timore che vincesse il fronte del «sì» era trapelato dalle dichiarazioni del ministro dell’Energia Fernando Santos, che ha posto l’attenzione sulle perdite economiche: 1 miliardo e 200 milioni di dollari l’anno in meno «per un Paese con enormi necessità».

NONOSTANTE LA NATURA SIA RICONOSCIUTA dalla Costituzione ecuadoriana come un soggetto di diritto e ai popoli indigeni sia garantita la consultazione prima di avviare iniziative di sfruttamento dei territori, queste norme nel tempo sono state compresse dalla dichiarazione di interesse nazionale rispetto all’approvvigionamento del petrolio. «Poiché l’industria petrolifera è uno dei principali motori della deforestazione – fa sapere Amazon Watch – l’estrazione di petrolio in Amazzonia provoca un danno ancora maggiore, abbattendo foreste fondamentali per l’assorbimento della C02 e la regolazione del clima, creando una bomba di carbonio, alla ricerca di riserve di combustibili fossili che gli scienziati e l’Agenzia internazionale per l’energia concordano sul fatto che debbano essere mantenute nel terreno per evitare i peggiori impatti del cambiamento climatico. Con l’Amazzonia a un punto di svolta dal collasso ecologico, attualmente al 26% di deforestazione e degrado, il bacino amazzonico dovrebbe essere un’area libera dall’estrazione di combustibili fossili».

PURTROPPO NON È ANCORA COSÌ. Nello stesso Parco nazionale di Yasuní esistono vari giacimenti: «Petroecuador – fa sapere l’ong californiana – ha una media di una fuoriuscita a settimana e i due principali oleodotti del Paese, che portano il petrolio dall’Amazzonia attraverso le Ande fino ai porti lungo la costa del Pacifico, hanno subito gravi fuoriuscite negli ultimi cinque anni». I primi a subirne le catastrofiche conseguenze sono i popoli indigeni della foresta amazzonica. Anche per questo la portata del referendum popolare avvenuto in Ecuador è storica. Sono stati preservati i loro diritti. «Le terre dei popoli Tagaeri, Dugakaeri e Taromenane incontattati sono state invase per anni, prima da parte di missionari evangelici, poi dalle compagnie petrolifere – ha dichiarato Sarah Shenker, direttrice della campagna dell’ong Survival International per i popoli incontattati – oggi, finalmente, possono sperare di poter tornare a vivere in pace. Ci auguriamo che l’esito di questo referendum aumenti la presa di coscienza del fatto che, se vogliamo che sopravvivano, tutti i popoli incontattati devono avere i propri territori protetti. Sappiamo che i loro territori costituiscono la migliore barriera alla deforestazione. I popoli incontattati sono nostri contemporanei, una parte vitale della diversità umana e custodi dei luoghi più biodiversi del pianeta».

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