Non so, forse ero quel che oggi si definirebbe un fondamentalista: per più di vent’anni per me è esistito solo il manifesto, l’ho respirato, l’ho difeso, ho ignorato ogni altra possibile carriera come giornalista.

Il problema è: perché? Non era un partito, tanto meno unito e solidale, e per la prima metà di quei vent’anni si trattò semplicemente di sopravvivere al naufragio del movimento nato dal Sessantotto. Pareva di essere in trincea.

Molti se ne andarono, il manifesto era un giornale moribondo, e se non crepò fu per merito dei «vecchi», come li chiamavamo noi «giovani», Pintor, Rossanda e Parlato (Luigi, Rossana e Valentino), che erano comunisti a modo loro, come del resto noi sessantottini.

Quando venne il grande choc di Chernobyl, mettemmo in discussione l’idolo del comunismo del Novecento: la tecnica, il progresso. Poi vennero, di corsa, gli altri grandi traumi. L’assassinio di Jerry Masslo, migrante sudafricano, mostrò di colpo che esistevano lavoratori schiavi. Tian An Men, il massacro degli studenti, esibì una Cina che era il rovescio di quella della rivoluzione culturale. E subito vennero il crollo del Muro e dei regimi socialisti-reali, la caduta dell’Unione sovietica.

Ma l’ordine non era ristabilito, ci fu la prima guerra del Golfo, poi la confusa e feroce guerra della ex Jugoslavia. E, in Italia, l’implosione del sistema democristiano-socialista e l’irresistibile ascesa di Berlusconi.

Non c’era da annoiarsi. E il manifesto era appunto un «quotidiano comunista» assai strano. Contro il nucleare e per i migranti, e la prima manifestazione nazionale antirazzista la promossero l’Arci e il manifesto. Ci dichiarammo pacifisti assoluti, e contro Berlusconi e il suo governo di fascisti e leghisti promuovemmo la memorabile manifestazione del 25 aprile del ’94.

Ho fatto per molti anni il caporedattore, a fine anni Ottanta inaugurai un carica tutta nuova, il «direttore editoriale» (direttore era Sandro Medici, mio fratello), poi divenni vicedirettore (il direttore era Luigi), prima insieme a Rina Gagliardi e poi con Guido Moltedo.

In quel periodo abbiamo informatizzato il giornale, inaugurato una serie di supplementi che arricchivano il quotidiano e le sue casse (come i mensili nel ventennale del ’68, per citarne solo uno), ridisegnato più volte il giornale fino al formato tabloid, che uscì qualche settimana prima della vittoria di Berlusconi, nel ’94, e creò, con i suoi titoli e la grafica della copertina e delle pagine, un linguaggio nuovo.

 

Anni 90, sezione esteri con Sgrena, Di Francesco, Pascucci- foto Fabio Fiorani
Anni 90, sezione esteri con Sgrena, Di Francesco, Pascucci- foto Fabio Fiorani

 

Nel frattempo, avevamo varato un paio di campagne pubblicitarie, la prima diceva Attenti, su questo bus c’è un comunista, beffardamente sulla scia del crollo dell’Urss, la seconda era La rivoluzione non russa, che ebbe un enorme successo con lo spot più breve della storia, un neonato con il piccolo pugno chiuso e un carillon che suonava l’Internazionale.

Dopo di che la cooperativa si aprì a un azionariato diffuso e in un anno raccogliemmo sottoscrizioni per 7 miliardi di lire. Così che il 1994 fu l’unico anno in cui il giornale chiuse il bilancio in attivo, vendette 54 mila copie di media e, si può dire, era resuscitato.

Mi ero convinto che c’erano solo due strade possibili: continuare a chiedere sostegni, sottoscrizioni per un giornale cronicamente in deficit, oppure puntare a allargare il numero dei lettori cercando, con maggiori entrate, di rimettere in equilibrio i conti. Per un po’ ci riuscimmo, grazie soprattutto a persone come Pintor, al grafico più bravo dell’epoca, Piergiorgio Maoloni, a un pubblicitario geniale come Sandro Baldoni, ai molti compagni, dentro e fuori la redazione, che si erano rimboccati le maniche.

Non è durato molto.

Nella storia del giornale c’è (o c’era, adesso non so più) una legge inflessibile: chi ha fatto il direttore, o giù di lì, quando smette deve andarsene. Questo non riguardava i «vecchi», ovviamente, che si alternavano nel ricoprire la carica di direttore e nell’indicare i «giovani» che potevano farlo provvisoriamente al posto loro.

E fu proprio per spezzare questo meccanismo che quando Luigi, nel ’96, si dimise, come faceva ciclicamente, io feci quel che nessuno aveva mai fatto: mi candidai tutto da solo a fare il direttore.

Presi a malapena un terzo dei voti e dovetti rassegnarmi: il mio giornale mi aveva sputato via come il nocciolo di una oliva. Poco tempo dopo me ne andai per fare un settimanale, Carta, che, nelle mie intenzioni, doveva affiancare il quotidiano negli anni in cui, come scrisse Luigi nell’ultimo editoriale, «la sinistra per come l’abbiamo conosciuta non esiste più».