Due mandati e a casa. Il ceto politico M5S subisce la linea Grillo
Agli albori, quando si trattava di essere al tempo stesso iconoclasti e rassicuranti, Beppe Grillo diceva che il Movimento 5 Stelle avrebbe portato avanti una «rivoluzione senza ghigliottina». Adesso la ghigliottina si è materializzata sotto forma del tetto dei due mandati. La scelta di confermare quella regola, ultimo principio delle origini ancora in vigore, colpisce buona parte del ceto politico che il M5S ha faticosamente messo in piedi in due legislature e dieci anni vissuti sulle montagne russe, dall’opposizione senza sconti alla scelta di stare al governo sempre e comunque.
FINO ALL’APPENDICE delle ultime settimane: con il leader Giuseppe Conte che sceglie di traslocare fuori dalla maggioranza e fuori dalla coalizione col Partito democratico. Adesso dovrà fare a meno anche di una quarantina di deputati e senatori. Tra di essi ci sono i big che in questi mesi hanno deciso di restare al fianco dell’ex presidente del consiglio: il presidente della Camera Roberto Fico, l’ex capo politico Vito Crimi, la vicepresidente del Senato Paola Taverna, il ministro dei rapporti col Parlamento Federico D’Incà, l’ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio Riccardo Fraccaro. Non è affatto detto che si salvi Virginia Raggi: godrebbe del cappello del «mandato zero» che non conteggia la prima esperienza in consiglio comunale, ma alcuni fanno notare che alla sua prima elezione in Assemblea capitolina sono seguiti altri due mandati: quello da sindaca e quello attuale del ritorno in consiglio comunale, all’opposizione. Hanno invece ancora una cartuccia da sparare il capodelegazione del M5S al governo Stefano Patuanelli (che prima di essere deputato in questa legislatura era consigliere comunale a Trieste), l’ex sindaca di Torino Chiara Appendino. C’è anche il fuoriuscito Alessandro Di Battista, la cui presenza ingombrante non sarebbe vista con favore da molti.
LA REGOLA del doppio mandato oggi viene giustificata dai 5 Stelle con l’esigenza di considerare la politica come una forma di «servizio civile» a tempo determinato, e non come un mestiere vero e proprio. Ma la scelta di fondo, ai tempi di Gianroberto Casaleggio era anche più radicale. La narrazione del co-fondatore del M5S prevedeva che la sovranità delle decisioni sarebbe dovuta appartenere ai cittadini che si sarebbero espressi tramite la piattaforma Rousseau. A quel punto, dunque, gli eletti erano considerati dei meri esecutori, la cui storia, identità, formazione era nei fatti indifferente. Questa gigantesca de-politicizzazione dell’attività legislativa non si è realizzata: Rousseau si è rivelato negli anni un mero feticcio, quando non un carrozzone telematico pieno di bug nei fatti inutilizzabile e pletorico. Così, il M5S ha dovuto fare i conti con la politica.
SE NE ERA ACCORTO lo stesso Conte, che annunciando il nuovo corso non aveva rinnegato lo strumento del voto online ma gli aveva affiancato l’esigenza di una strutturazione territoriale e di un’organizzazione tradizionale. Oggi il leader cerca di rassicurare i suoi dicendo che «il patrimonio di competenze ed esperienze» maturato dagli eletti che hanno svolto due mandati «non andrà disperso». «Continueranno a portare avanti, insieme a noi, le battaglie del Movimento. Abbiamo bisogno della loro esperienza, della loro competenza, della loro inguaribile passione», dice Conte, che ieri ha anticipato personalmente ai big la scelta obbligata di mantenere la mannaia dei due mandati, raccontando loro del rifiuto di Grillo di concedere qualsiasi deroga.
QUESTO FLASHBACK nel M5S delle origini appare come il contrappasso delle velleità passate sulle impellenze materiali di questi tempi. Crea più problemi che opportunità, anche se per Conte diventa occasione per compilare liste a sua immagine e somiglianza. L’avvocato è ancora impegnato a ragionare sulla strategia elettorale. Se l’alleanza col Pd pare ormai archiviata, non è del tutto abbandonata la suggestione di un polo rosso-verde che vada da De Magistris a Sinistra italiana e Verdi europei. Solo se queste due ultime forze politiche dovessero accettare di essere della partita, Conte potrebbe convincersi a rinunciare alla corsa in solitaria. Per motivi di posizionamento (non vuole dare argomenti all’illazione di Luigi Di Maio, che va dicendo che «i 5 Stelle di Conte sono ormai un partito di estrema sinistra») ma anche per più prosaiche ragioni di sondaggi: per le coalizioni la legge fissa lo sbarramento al 10%, soglia pericolosamente a rischio senza l’apporto di Fratoianni, Bonelli ed Evi. Dunque, la bussola elettorale per ora indica la direzione della corsa in solitaria. Conte la ritiene la scelta giusta. In virtù della quale ieri ha assicurato un futuro ai grandi esclusi: «Dovete restare al nostro fianco, faremo bene e ci sarà posto per tutti».
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