L’Europa punta a responsabilizzare le imprese e a tutelare i cittadini. A questi ultimi però ancora l’onere di dimostrare eventuali violazioni. Una nuova legislazione sulla dovuta diligenza per prevenire e identificare, laddove si verifichi, l’impatto delle imprese su diritti umani e ambiente, è stata approvata il 1° giugno dal Parlamento europeo. Il testo della direttiva sulla due diligence è passato con 366 voti a favore, 225 contrari e 38 astensioni. Ora si aprono i negoziati con i Paesi europei sul testo finale. Associazioni e Ong lamentano, però, ancora gravi lacune.

IL VIA LIBERA DATO DA BRUXELLES è il frutto di un lungo lavoro. La proposta della Commissione risale al 23 febbraio dello scorso anno. Nonostante le integrazioni inserite e i vari emendamenti, l’indirizzo politico sembra essere diretto ancora verso un compromesso a favore delle multinazionali. La denuncia arriva da Impresa 2030. Diamoci una regolata, il network di dieci organizzazioni che ha curato la campagna di sensibilizzazione sul tema in Italia. Vi fanno parte Mani Tese, Oxfam, ActionAid Italia, Save the children, Equo Garantito, Fair, Focsiv, Fondazione finanza etica, Human rights international corner e WeWorld.

«IL PARLAMENTO – SCRIVONO – NON E’ RIUSCITO a invertire l’onere della prova che, ad oggi, rimane in capo esclusivamente alle vittime. Allo stato attuale, ciò significa che queste dovranno provare, oltre il danno subito, anche la mancata o inadeguata applicazione della due diligence da parte delle imprese. Proprio l’onere della prova, in capo alle vittime – spiegano – è stato in molte importanti cause legali un significativo ostacolo per l’accesso alla giustizia. Questa legge dovrebbe aggiungere spina dorsale agli obiettivi del Green Deal dell’Unione Europea, ma il Parlamento – a loro avviso – ha scelto di ignorare le protezioni ambientali raccomandate dalla commissione ambiente».

AL MOMENTO LE NORME INTERESSANO le imprese europee con più di 250 dipendenti e un fatturato superiore ai 40 milioni di euro e le società madri con più di 500 dipendenti e un fatturato superiore a 150 milioni di euro. Per le imprese con sedi extraeuropee rientrano nella direttiva quelle con un fatturato superiore a 150 milioni di euro, di cui almeno 40 milioni afferenti a business interni all’Ue. I nuovi obblighi verrebbero applicati dopo 3 o 4 anni, a seconda delle dimensioni delle aziende. Alle imprese più piccole è concesso di ritardare l’attuazione di un ulteriore anno. Le multinazionali dovranno prevenire, identificare e porre fine o mitigare l’impatto negativo delle proprie attività, sulla scorta dei tre pilastri contenuti nei principi guida Onu del 2011 «proteggere, rispettare e rimediare».

NON PIÙ SOLTANTO RACCOMANDAZIONI, quindi, ma obblighi di legge finalizzati a garantire l’obbligo dello Stato di proteggere i diritti umani e l’ambiente, la responsabilità dell’impresa di rispettarli e l’accesso alla giustizia per i cittadini. Nella nuova normativa è inclusa anche tutta la filiera, ovvero i fornitori, la distribuzione, il trasporto, lo stoccaggio e la gestione dei rifiuti. In caso di violazioni, la possibilità di citare in giudizio le imprese nei tribunali europei resta però vincolata alla presentazione di prove da parte delle popolazioni coinvolte. «Ci troviamo di fronte a pressanti crisi congiunturali ed economiche – fa sapere Giosué De Salvo, co-portavoce di Impresa 2030 – il compromesso politico ha eroso ancora una volta le misure chiave per proteggere l’ambiente e garantire l’accesso alla giustizia». Spetterà alle autorità di vigilanza nazionali sanzionare le società inadempienti.

TRA LE MISURE CHE VERRANNO COMMINATE ci sono il naming and shaming, ovvero la pubblicazione dei nomi, il ritiro dal mercato dei prodotti dell’azienda o ammende pari ad almeno il 5% del fatturato netto globale. Le aziende extraeuropee che non rispettano le regole saranno escluse dagli appalti pubblici Ue. Particolare attenzione è dedicata anche alla crisi climatica, con l’obbligo per le società coinvolte di attuare un piano di transizione verde, finalizzato a mantenere il riscaldamento globale entro il limite di 1,5 gradi. «Sebbene soltanto 100 società siano responsabili di oltre il 70% delle emissioni mondiali di gas a effetto serra dal 1988 – si legge nel testo all’emendamento numero 9 – vi è una sostanziale discrepanza tra gli impegni assunti dalle imprese in materia di clima e i loro effettivi investimenti nella lotta contro i cambiamenti climatici. La presente direttiva è pertanto un importante strumento legislativo per evitare dichiarazioni fuorvianti sulla neutralità climatica e per fermare il greenwashing e la diffusione dei combustibili fossili in tutto il mondo, al fine di conseguire gli obiettivi climatici internazionali ed europei, raccomandati anche dalle più recenti relazioni scientifiche».

L’IMPORTANZA DI APPROVARE una direttiva stringente sulla dovuta diligenza è stata oggetto di numerose campagne di sensibilizzazione in tutta Europa. In Italia Impresa 2030 ha istituito un anno fa un osservatorio che ha pubblicato i primi sette casi studio. Si va dallo sversamento in mare di 6 mila barili di petrolio nel 2021 in Perù, allo sfruttamento del lavoro in Cina e in Bangladesh nei settori dei giocattoli e delle telecomunicazioni. Dai pesticidi e i rifiuti industriali, rispettivamente in Brasile e in Cile, a un impianto idroelettrico in Guatemala.

IL LEITMOTIV DI QUESTE STORIE non consiste solo negli effetti negativi su cittadini e ambiente, ma nel fatto che tutte le multinazionali coinvolte in queste storie sono europee. Con una legge sulla due diligence alle popolazioni extraeuropee verrebbe garantita la possibilità di citarle in giudizio presso le corti di appartenenza. La decisione a livello comunitario non esclude che ciascun Paese possa già provvedere autonomamente a legiferare sul tema. Ma ad oggi sono pochissimi i Paesi che lo hanno fatto. La prima è stata la Francia nel 2017 con il Devoir de Vigilance, che si applica alle aziende con più di 5 mila dipendenti. Di recente lo hanno fatto anche la Germania e la Norvegia.