Ci sono eroi da prima pagina, giovani e slanciati, ed eroi quotidiani che sul volto hanno scavate le linee di una vita passata a inseguire la giornata, persone nate dalla terra e spinte dall’unica necessità di fare la cosa giusta. Senza pubblico a celebrarle. «C’è Dio» dicono, ma spesso non si vede manco lui.

MATHIAS POP È UN CONTADINO q’echì di un piccolo villaggio al confine tra Guatemala e Messico chiamato Santa Elena Rio Salinas, nato più di 50 anni fa per volere del governo dittatoriale guatemalteco come campo di lavoro per dissidenti indigeni dell’area rurale. La terra è tra le più fertili della zona, una benedizione dovuta al clima tropicale e all’umidità del fiume La Pasión che si è trasformata in maledizione quando una delle più grandi aziende di olio di palma ha cominciato a comprare concessioni nell’area. In poco tempo il villaggio si è trasformato in una enorme palmera e chi si è rifiutato di vendere ha visto le proprie piantagioni rinsecchirsi sotto la morsa tossica delle radici di una pianta importata e aggressiva.

LA MAGGIOR PARTE DEI CONTADINI di Santa Elena ha ceduto e per sopravvivere è andata a lavorare per la palmera con deboli contratti a giornata, per rimediare almeno una busta di tortillas e fagioli da portare a casa a ogni tramonto. Forte di un monopolio incontrastato, un giorno d’estate la grande impresa decide di licenziare tutti coloro che non accettavano di abbassare la paga giornaliera da sei dollari a cinque. In una terra martoriata da una povertà ereditata da generazioni ci si mette poco a trovare forza lavoro pronta a raccogliere olive arancioni dall’alba al tramonto per il corrispettivo di un piatto di minestra o poco più.

Davanti all’ennesimo schiaffo la gente esplode. Imbraccia i forconi, i rastrelli, le pale arrugginite e occupa il centro di raccolta delle olive. L’odore acre dei noccioli in fermentazione si mescola a quello acido di una collera impolverata e stanca.

Mathias non ha interessi personale nelle ragioni della rivolta. Lui ha mantenuto la sua terra e, pur nella difficoltà degli ultimi raccolti, ha continuato a sfamare la sua famiglia. Però è un leader indigeno del villaggio e ci mette poco a girare la zappa verso il cielo per lanciarsi alla testa della protesta. Perché? Nelle comunità q’echì esiste un codice non scritto che fa della responsabilità solidale la nervatura del potere. Essere leader di una comunità significa appoggiarne i bisogni collettivi, molto più in là degli sterili limiti personali.

QUELLO CHE NE SEGUE sono scontri cruenti, cariche da parte dei militari, fucilate e vari feriti. Dopo giorni di rabbia convulsa, la palmera accoglie le istanze dei lavoratori. I contadini festeggiano. Mathias invece finisce in un carcere di massima sicurezza. Viene malmenato, deriso, rinchiuso per settimane nel calabozo, la cella d’isolamento dei dissidenti politici nei decenni della guerra civile, e buttato fuori dopo mesi con l’obbligo di confino.

Per un uomo q’echì di mezza età non c’è umiliazione più grande di non poter tornare tra le sue colline. Vive lontano per un anno. Non è lì quando nasce il secondo nipote, mentre si raccoglie il mais e quando una malattia senza nome stringe nel letto la terza figlia. Quando torna, ritrova la sua gente, la sua famiglia e la sua terra giallo avorio. E non ci pensa due volte a riprendere la guida nel consiglio indigeno, nonostante il carcere e il confino, nonostante le battaglie di Santa Elena lo riguardino a malapena. Torna e sta, dimostrando che in una terra squassata da secoli di saccheggi esiste un eroismo naturale e istintivo radicato nello spirito della gente comune. Nella consapevolezza che i propri padri hanno passato le stesse tribolazioni, e i nonni ancora e ancora a ritroso fino alle prime invasioni europee.

MATHIAS È IL VOLTO di una rivoluzione che cammina sulle gambe stanche di ogni alba ed è così quotidiana da non trovare parole a celebrarla. Si perde nel ciclo delle cose, scandendone involontariamente il ritmo. Con buona pace per le copertine del Time.