Il confronto televisivo di ieri sera fra Rishi Sunak e Mary Elizabeth Truss, gli ultimi due candidati alla premiership britannica nel post-Boris Johnson per l’emittente Talk Tv e il tabloid Sun, in corso mentre scriviamo, è stato improvvisamente interrotto per un mancamento in studio della moderatrice, Kate McCann.

QUELLO di lunedì davanti alle telecamere Bbc pareva essersi concluso senza evidenti vincitori. Ma un sondaggio di ieri sulle reazioni a caldo ha rilevato che l’approccio aggressivo di Sunak, partito in svantaggio sulla rivale, non gli sarebbe valsa la rimonta cui ambiva. “Liz” avrebbe vinto la tenzone mediatica secondo il 50% degli intervistati, mentre solo il 39% ha visto in “Rishi” il vincitore.
Ambedue selezionati fin qui dai colleghi parlamentari secondo le regole dell’organismo elettivo interno del partito, il 1922 Committee, l’ex ministro delle finanze Sunak e la titolare degli Esteri Truss si disputeranno ora il voto dei circa 160mila iscritti al partito nell’elezione del prossimo cinque settembre.

Di assai evidente, nel dibattito c’è stata l’acrimonia fra i due. Tale è stata la ridda di accuse reciproche da sollecitare nei commentatori interni un invito ad ammorbidire i toni per limitare l’impressione che la corsa alla leadership tradisca la brutale sete di potere dei singoli anziché il “bene comune” del partito, cosa che rischierebbe di punirli alle elezioni politiche del 2025.

TRUSS E SUNAK si sono accusati su tutto, politica fiscale, i rispettivi background e posizioni politiche della prima ora su Brexit. Sulle tasse: Sunak invoca la responsabilità fiscale e non promette tagli difficilmente ripagabili mentre Truss adotta la linea di Johnson e ne promette di immediati. Sunak, aggressivo e paternalistico ai limiti del sessismo nel suo interrompere di continuo la rivale, ne ha stigmatizzato il passato di remainer. Lei ha ribattuto accusandolo di aver alzato troppo le tasse contravvenendo al sacro e atavico dogma conservatore.

SULLA POLITICA ESTERA, Sunak aveva altro terreno da recuperare: percepito come troppo morbido su Cina e Russia rispetto a una Truss così a suo agio fra granate, cingoli e contraerea, ha cercato di mostrarsi virilmente anticinese. L’epoca del guardare a Pechino come partner economico-finanziario degli anni di Cameron è ormai un lontano ricordo: Sunak ha definito la Cina come “la massima minaccia alla Gran Bretagna”.

L’unico fronte in cui i due hanno saputo esprimere il sospirato unanimismo è quello antisindacale, in un momento in cui le agitazioni si susseguono: Truss vuole inasprire i prerequisiti per il diritto di sciopero e Sunak ha detto che adotterà una “linea più dura” contro i sindacati. Dopo gli scioperi dei ferrotranvieri del giugno scorso – oggi, sabato e in agosto il sindacato Rmt tornerà ad incrociare le braccia contro i tagli ai salari e i licenziamenti – è ormai guerra aperta. Mick Lynch, il leader della Rmt ha definito le proposte “il peggiore assalto al sindacato e ai diritti civili dalla legalizzazione delle unions nel 1871”.

SIMILI SCHERMAGLIE non sono solo funzionali al mettere le mani sul civico numero dieci di Downing Street (Sunak risiedeva già all’undici) ma denotano il bivio fra la sostanziale continuità pseudo-populista con Johnson espressa da Truss – che si è rifiutata di condannarne il mendace operato – e un rilancio dell’epoca dei Cameron e degli Osborne, veri amici del grande capitale finanziario e non, di cui il miliardario Sunak – che di Johnson è stato il dimissionario accoltellatore – è primaria espressione.