Donne libere seppur bangla
A Roma alcune donne della comunità bangladese si supportano attraverso reti informali e associazioni. E così cercano di liberarsi dall’oppressione dei loro uomini. Nel quartiere di Torpignattara i primi passi delle organizzazioni femminili
A Roma alcune donne della comunità bangladese si supportano attraverso reti informali e associazioni. E così cercano di liberarsi dall’oppressione dei loro uomini. Nel quartiere di Torpignattara i primi passi delle organizzazioni femminili
«Noi siamo 64 donne e siamo tutte forti, indipendenti», sono le parole pronunciate da Laila Shah mentre parla di “Mohila Somaz Colan Sumeti”, l’associazione di donne bangladesi di cui è presidente. Lo dice ridendo, nella sede del suo negozio “Laila Fashion” nel quartiere Torpignattara di Roma, dove queste donne – che sono mediatrici, giornaliste, assistenti sociali – ogni mese si riuniscono circondate da sari colorati e odori di spezie.
«ABBIAMO INIZIATO tredici anni fa e abbiamo subito pensato di aiutare le donne: lo facciamo creando una rete di sostegno all’interno della comunità, ascoltando e, quando possiamo, dando un piccolo aiuto economico o pratico». Una rete informale che si snoda come un fiume nei luoghi della quotidianità: nelle cucine, nel parco sotto casa, nel retrobottega di un negozio. La parte femminile della comunità bangladese rappresenta oggi il 30% e aumenta ogni anno per via dei sempre più frequenti ricongiungimenti familiari che dal Bangladesh portano nuove mogli in Italia e a Roma. In questo contesto, molte di loro spesso si trovano in difficoltà: da sole, senza conoscere la lingua italiana, in alcuni casi completamente assoggettate al potere del marito. L’altro lato della medaglia, però, è costituito proprio da coloro che riescono ad ottenere una certa indipendenza e che, grazie all’associazionismo, si impegnano per le altre donne della comunità e che con un lavoro lento mirano a produrre un cambiamento dal basso.
Questo lavoro carsico si concretizza, nel caso dell’associazione di Laila, in iniziative di carattere pubblico (come l’organizzazione di gite fuori Roma assieme alle famiglie o di festeggiamenti per le tradizioni della comunità) e in impegni più mirati, come il corso di italiano per sole donne che l’associazione ha gestito per alcuni mesi all’interno del negozio con la collaborazione di alcune docenti della scuola elementare Carlo Pisacane di Roma.
MA SE È VERO CHE L’ESSENZIALE è invisibile agli occhi, il lavoro più importante è quello che avviene nelle retrovie: Laila e le altre parlano, ascoltano le necessità e i bisogni delle donne, creano un dialogo con quei mariti oppressivi quando ci sono problemi. «Nelle nostre comunità i mariti spesso comandano: il marito decide che si deve uscire e si esce, dice di no e non si esce. Ma questo non va bene, anche perché molte di noi sono madri e come possono essere buone madri se stanno sempre in casa, se non si immergono nella società per i loro figli?». Laila, che autonoma lo è da sempre, è arrivata in Italia nel ‘91: ha lavorato prima in un ristorante col marito e da 17 anni gestisce il suo negozio mentre cresce con sé una figlia e due nipoti. E il suo impegno nel sociale le è valso l’Italy Bangla Kagoj Community Award, un premio che la comunità bangladese internazionale riconosce ogni anno all’interno di ogni Paese europeo.
«Un’altra cosa importante che facciamo è sostenere economicamente un membro della comunità nel momento del bisogno: in alcuni casi, ad esempio, abbiamo organizzato delle sagre per vendere dolci, cucinati da noi, il cui ricavato poi è stato donato.
Anche questo è un modo per raggiungere tante donne», spiega accanto a lei Shima Kansar Akhi, membro dell’associazione. Shima è giornalista, ama «leggere il Corriere della Sera» ed è impegnata profondamente in iniziative di carattere sociale. Non parla un italiano perfetto, ma ci tiene a ribadire più volte che «la necessità di essere libere deve partire da noi stesse». Non è un caso, infatti, che all’interno della comunità bangladese vi siano molte associazioni di donne: sono proprio queste reti – spesso anche informali – a consentire un certo protagonismo sociale.
Laila e Shima raccontano anche di giovanissime associazioni a Centocelle, «che sono ancora all’inizio e hanno fatto poco, ma che hanno tanta voglia di impegnarsi». Poi, scendendo un po’ più a sud nella mappa di Roma, nel quartiere Tuscolano si ritrovano le donne di “Nobojagoron”, che, senza soldi né sedi, si riuniscono in un bar di fiducia per stabilire il programma del mese. «Ci rivolgiamo alle donne perché sono loro ad avere più bisogno», spiega Nayana Ahmed, membro dell’associazione fondata circa un anno fa. Anche loro hanno un forte afflato comunitario: organizzano feste, incontri, raccolte fondi. E allo stesso tempo sensibilizzano quelle donne più difficili da raggiungere: «Cerchiamo di creare un contatto con le donne bangladesi più riservate, quelle che magari sono qui da poco. Ad esempio, lo facciamo in occasioni importanti come il capodanno bangladese ma anche nella vita di tutti i giorni, quando accompagniamo i nostri bambini a scuola e nel piazzale ci incontriamo con le altre madri».
E così i luoghi della quotidianità diventano pratica di solidarietà: «Un giorno, proprio davanti la scuola dei nostri figli, parlando con una donna scopriamo che era senza luce in casa da due settimane, il marito era partito e lei non sapeva come fare. Ci siamo subito organizzate per risolvere il problema e sostenerla». Ma, a volte, i casi sono anche più gravi. Come quello di una ragazza che, fuggita dalla violenza del marito, è stata ospitata da una di loro per una settimana e poi accompagnata in una casa rifugio. Sanjida Islam Sungita, che di “Nobojagoron” è la presidente, spiega che «all’inizio non è facile, ma il cambiamento nella comunità pian piano si vede. Noi stesse diventiamo dei punti di riferimento e in qualche modo facciamo sì che queste donne – e soprattutto i loro mariti – si fidino. Questo permette una maggiore partecipazione sociale».
LE FIGURE DI DONNE riconosciute dalla comunità sono, infatti, uno strumento importante. Fra queste c’è Sultana, in Italia da 25 anni e oggi proprietaria un negozio di vestiti tradizionali a Torpignattara. Fino a qualche anno fa anche lei gestiva un’associazione di donne, «Lady’s Club», ma quando molte delle associate sono andate via da Roma, ha deciso di continuare in autonomia, creando una rete di solidarietà informale, che coinvolge anche italiani del quartiere. «Qui le donne bangladesi spesso sono sole e non sanno come fare, perché i mariti lavorano, sono assenti dalle case. Io le aiuto personalmente o le indirizzo nel posto giusto». Molte di loro, poi, non possono che affacciarsi timidamente alla società perché costrette a stare in casa. È qui che interviene Sultana che, a questo punto, inizia un dialogo con questi uomini e li convince a far uscire le loro mogli assumendosene la responsabilità. «Le accompagno a scuola o al parco dove ci sono altre famiglie e giorno dopo giorno questa diventa una consuetudine sempre più normale e accettata» anche da chi continuerà a opprimerle fra le mura familiari.
Il cambiamento, le donne bangladesi ne sono consapevoli, non è facile. Ma sanno anche che il fiume carsico erode le rocce nel sottosuolo. Prima di riemergere con forza in superficie.
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