Domani un Thanksgiving premonitore
Stati uniti Soltanto chi ignora la “sacralità” del Thanksgiving Day tende a sottovalutare il fenomeno soggiacente: cioè la gravità dello strappo che sta sfaldando il tessuto sociale degli Stati uniti
Stati uniti Soltanto chi ignora la “sacralità” del Thanksgiving Day tende a sottovalutare il fenomeno soggiacente: cioè la gravità dello strappo che sta sfaldando il tessuto sociale degli Stati uniti
Almeno una volta all’anno tutti gli americani, sparsi nella vastità del continente, riuniscono le famiglie per condividere affetti, gioie, dolori e l’immancabile tacchino farcito. La ricorrenza da festeggiare è il Thanksgiving Day e cade domani, ultimo giovedì di novembre.
Ma quest’anno la parola “festeggiare” sembra fuori luogo. Per la prima volta dopo 150 anni dalla Guerra di Secessione, qui negli Stati Uniti si vedono famiglie spaccate dalle scelte elettorali dei propri congiunti, e che ora rifiutano di sedersi al desco comune. Attenzione, non è un’irritazione passeggera, ammoniscono i sociologhi: è una spaccatura epocale.
Bob Putnam, noto anche in Italia per le sue passate ricerche sul “familismo amorale” nel Mezzogiorno, osserva da decenni l’affievolirsi del “capitale civico” nel suo Paese e ora dice: «Se aveste partecipato a un Thanksgiving cinquanta anni fa, quasi certamente avreste avuto attorno a voi commensali di diversa estrazione. Oggi è raro sedersi a tavola con gente che non sia affine a noi».
Soltanto chi ignora la “sacralità” del Thanksgiving Day tende a sottovalutare il fenomeno soggiacente: cioè la gravità dello strappo che sta sfaldando il tessuto sociale degli Stati uniti.
Qualche cifra può bastare a misurarne la fragilità: nell’indice Gini che misura le sperequazioni di reddito gli Stati uniti si piazzavano nel dopoguerra alla pari con la Svezia, mentre oggi sono vicini al Messico. Nell’ultimo trentennio la produttività negli Stati uniti è cresciuta dell’80%, mentre i salari sono mediamente aumentati in termini reali appena dell’11% (chi ne ha profittato?).
Un terzo della popolazione è “creazionista”, anti-darwiniana e anti-abortista senza se e senza ma; ed è la stessa che difende la pena di morte, l’uso della tortura (quando ce vo’ ce vo’), la libertà di armarsi e la castrazione giudiziaria per i recidivi di reati sessuali.
Su 320 milioni di abitanti un terzo è obeso (fra cui il 14% dei minorenni), un altro terzo è sovrappeso (fra cui il 17% dei minorenni) e sono sopratutto i poveri ad ingrassare.
Le carceri ospitano un quinto dei reclusi del mondo (circa 2.200.000, di cui metà neri); in proporzione è come se l’Italia avesse 500.000 carcerati invece degli attuali 50.000.
La disoccupazione fra i neri è doppia della media nazionale e il 70% dei bambini neri nasce da madri senza marito, quasi tutte sotto la soglia della povertà.
I grandi imperi della storia sono decaduti per sfaldamento interno piuttosto che per attacchi esterni; l’attuale disgregazione del tessuto sociale spinge gli Usa in quella direzione. La vittoria di Trump ne è un sintomo, un sintomo roboante. Si sta facendo largo (è il caso di dirlo) una genìa di governanti di stazza extra-large, divoratori di Big Mac, arroganti, inclini alla violenza verbale e – temo – anche fisica.
I valori filadelfiani su cui si regge l’Unione erano permeati anche fisicamente di uno stile sobrio, di quella sobria eleganza originata nel Secolo dei Lumi e trasfusa nell’arredamento dell’Independence Hall a Filadelfia e della Casa Bianca a Washington.
Vi immaginate quegli interni arredati col gusto da satrapo turkmeno delle magioni del Donald? Ovviamente gli verrà impedito di provarci. Intanto, però, circola la battuta sul figlio più piccolo di Trump che entrando alla Casa Bianca esclama: «Papà, ma siamo diventati poveri?».
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