Documentari a Cuba: un’isola vista da lontano
Vite migranti Dai film l'urgenza di raccontare l'esodo e la sofferenza nel paese della rivoluzione castrista
Vite migranti Dai film l'urgenza di raccontare l'esodo e la sofferenza nel paese della rivoluzione castrista
Vicenta sa leggere le carte su cui sbuffa il fumo di tabacco come vuole il rituale. Allora allerta chi viene a consulto su cosa tenersi lontano, suggerisce bagni con erbe medicali e aromi, conforta e dà indizi. Vicenta sa vedere il futuro degli altri, ma non quello di suo figlio Carlitos che sta partendo, in fuga dall’isola. Anzi, con la partenza del figlio la abbandonano anche le sue visioni. Siamo a Cuba e Vicenta B. è la protagonista dell’omonimo film di Carlos Lechuga, uscito nel 2022 e in tour in tanti festival internazionali. Toccante, girato con maestria e con una splendida interpretazione di Linnett Hernández Valdés, per 77 minuti Cuba si guarda allo specchio con dolore e disincanto, smarrimento e tenerezza. Forse per questo non piaceva ai funzionari di partito, che hanno evitato finisse sugli schermi all’ultimo Festival di cinema latinoamericano dell’Avana nel dicembre scorso.
Scrivendo Vicenta B, Carlos Lechuga, classe 1983, alla sua quarta prova di lungometraggio, ci ha messo una buona dose di autobiografia: lui stesso ora è migrato in Spagna, «ma quando ho fatto il film ero ancora a Cuba e non avevo ancora pensato di andarmene. E d’altra parte la protagonista è ispirata a mia nonna, Vicenta Rosa, che era una cartomante, aveva un dono. Sì, sono nato in una casa affollata di donne e di fantasmi». A differenza di altre storie di emigrazione, Vicenta B. non segue le vicende del figlio che parte, ma si concentra sulla madre che rimane. E lei, come tutti quelli che restano nell’isola, sperimenta una solitudine nuova, là, intrappolata in un presente triste e un passato che sembra eterno.
L’emigrazione è sempre stata un argomento tabù nell’isola dei Castro. Prima le folate verso la Florida dopo la Rivoluzione, quello che il regime continua a chiamare «la mafia di Miami», poi uno sgocciolare continuo. A Cuba si evitava di parlarne, perché chi se ne andava era considerato un traditore o un ingrato con la Rivoluzione, nient’altro che «gusanos», vermi. A parte l’espatrio forzato di 125 mila persone dal porto di Mariel nel 1980, una delle pagine più tristi della Rivoluzione, mai come dal 2021 si era visto un tale esodo di massa. E il silenzio si è rotto. Ora tutti ne parlano perché non c’è cubano che non abbia un familiare, un collega o un amico andato via. E così anche i giornali ufficiali e gli esponenti del regime sono costretti ad ammetterlo, anche se lo incorniciano in un «fenomeno globale» e conseguenza del «bloqueo». Tutto questo spiega anche perché artisti e cineasti cubani sentano ora l’urgenza di raccontare questo paese che lascia sé stesso.
Vicenta allora sembra la metafora dell’isola, «la fotografia del presente, di un paese che si sta dissanguando. Vicenta è la Cuba che perde i suoi figli, la Cuba che non sa, emotivamente e materialmente, come proseguire, come andare avanti – riflette Lechuga – Ma Cuba sono anche i figli che se ne vanno, per cui anche Carlitos è Cuba». C’è chi prova ancora a attraversare il mare e chi si ricongiunge ai familiari all’estero; ma sono stati ben 300 mila a entrare via terra negli Stati Uniti, tra ottobre 2021 e la fine del 2022: è potuto succedere perché il Nicaragua, d’accordo con le autorità cubane, ha tolto l’obbligo di visto e così a frotte sono volati a Managua per poi proseguire via Messico. Qualcosa di simile, è successo in Russia dove a migliaia sono atterrati negli aeroporti di Mosca e San Pietroburgo.
Proprio su quest’ultimo paese, ha acceso i riflettori il docu-film Llamadas desde Moscu, telefonate da Mosca, un’opera prima di sorprendente intensità firmata da Luis Alejandro Yero, che dopo essere stato accolto alla recente Berlinale è approdato al MoMA di New York. Il giovane regista (classe 1989) che vive all’Avana, ha costruito il ritratto di quattro giovani cubani gay, arrivati nella capitale russa e rimasti a lavorare, illegalmente, per raccogliere un po’ di soldi in modo da proseguire il viaggio o in attesa di tempi migliori.
«Durante la pandemia sono rimasto impressionato da un articolo sugli emigrati cubani a Mosca, in particolare le storie di alcuni giovani gay e trans. A quel punto ho cominciato a raccogliere informazioni e contatti, videochiamate e messaggi, e a un certo punto sono partito. Era il dicembre 2021», ci racconta. Una situazione desolante: «Molti lavorano per pochi soldi, nei grandi mercati all’ingrosso e in condizioni ottocentesche. Rimasti illegali, ricattati dalla polizia, vivono tra mille difficoltà e paure in un paese gelido e con una lingua aliena, omofobo e xenofobo: mi ha commosso». Affittato un appartamento, regista, fotografa e produttore hanno selezionato i quattro protagonisti (Eldis, Dariel, Daryl y Juan Carlos) e hanno girato il docu-movie quasi clandestinamente nel giro di due settimane, terminando alla vigilia dell’aggressione russa all’Ucraina.
Luis Alejandro Yero dice di avere il sogno di veder proiettato il suo film nei cinema dell’Avana. Per ora, nessuno dei media ufficiali, solitamente verbosi, ha riservato un solo commento alle telefonate da Mosca. Per costruire il suo film si è fatto guidare da una domanda: «Cosa succede quando il tuo corpo si trasforma nell’unica patria?». Patria è la parola-chiave, non solo perché è il baricentro della retorica del regime («Patria o muerte») e della nuova dissidenza («Patria y vida»), ma anche perché è un terreno semantico che inevitabilmente si deforma quando vive un simile esodo migratorio. Cuba non ha più i confini dell’isola. Nel film di Carlos Lechuga la patria è diaspora, quella fuori dall’isola e quella dentro, l’assenza di chi è andato via e il disorientamento di chi resta, «come Vicenta, in una sorta di limbo, sospeso su un ponte tra la fede e la mancanza di speranza». Nel film di Luis Alejandro Yero la patria ha il corpo di quei quattro giovani e la loro disconnessione con il mondo che hanno lasciato e quello dove sono approdati. Cuba sembra diventata, come ha scritto il filosofo cubano Gabriel Leiva Rubio, «una patria senza forma e una nazione senza contenuto».
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