Dieci punti per un vero reddito minimo garantito
Il caso A differenza del reddito di inclusione approvato dal governo Gentiloni, quella della Rete dei Numeri pari è una proposta in grado di rovesciare la situazione e contrastare davvero povertà, mafie, disuguaglianze, razzismo. La richiesta di incontrare i candidati alle elezioni del 4 marzo
Il caso A differenza del reddito di inclusione approvato dal governo Gentiloni, quella della Rete dei Numeri pari è una proposta in grado di rovesciare la situazione e contrastare davvero povertà, mafie, disuguaglianze, razzismo. La richiesta di incontrare i candidati alle elezioni del 4 marzo
C’è un equivoco sul reddito di inclusione sociale (Rei), il modesto strumento adottato dal governo Gentiloni per il contrasto della povertà. Presentato come il rimedio «universale» a un dramma che colpisce quasi 5 milioni di poveri «assoluti» e circa 9 milioni di poveri «relativi» è in realtà un sussidio simbolico che rafforza la trappola della precarietà in cui vive una parte tra l’altro esigua dei poverissimi: i due miliardi di euro stanziati in due anni copriranno a malapena circa 600 mila persone, in particolare le famiglie numerose fino a 5 figli, obbligate ad accettare un lavoro purchessia pena la perdita di un sussidio da 190 a 485 euro per massimo un anno. L’Alleanza contro la povertà, un cartello di associazioni cattoliche e laiche (dalla Caritas alla Cgil), ha prima sostenuto il Rei e oggi ai candidati alle elezioni chiede di estenderlo e aumentarlo, con un fondo pari a 7 miliardi all’anno.
Per la rete dei Numeri pari, un’associazione a cui aderiscono tra gli altri Libera, la Rete della Conoscenza, Libertà e Giustizia e il Basic Income Network Italia non basta aumentare i fondi per rendere il Rei uno strumento di giustizia. I «dieci punti per il reddito minimo garantito» presentati in una due giorni di «formazione» alla Casa internazionale delle Donne e alla federazione nazionale della stampa a Roma chiariscono che il reddito dev’essere universale e individuale, e non concepito su base familiare come accade per il Rei. Dev’essere pari almeno al 60% del reddito mediano: massimo 780 euro al mese, come richiesto da una risoluzione del Parlamento Ue nel 2010. Diversamente dal «reddito di cittadinanza» del Movimento Cinque Stelle, il «reddito minimo garantito» distingue tra la congruità dell’offerta di lavoro e l’obbligatorietà del lavoro «purché sia». I suoi beneficiari non possono essere costretti ad accettare qualsiasi lavoro. Per uscire da questo ricatto, tipico di un sistema di «workfare», il reddito va fondato sul «diritto all’esistenza» di ciascuno a prescindere dalla partecipazione al mercato del lavoro. Una svolta copernicana.
«Chiediamo un immediato confronto con le forze politiche per discutere e implementare la proposta sul reddito minimo garantito» sostiene Giuseppe De Marzo (Rete dei numeri Pari). «Siamo l’unico paese nell’Ue a non avere una misura di sostegno al reddito. Il Rei non può essere definito tale perchè seleziona solo una parte dei poveri assoluti senza peraltro garantire loro la realizzazione di un’esistenza libera e dignitosa» ha aggiunto Giuseppe Bronzini (Bin Italia). Per il costituzionalista Gaetano Azzariti «dev’essere uno strumento di emancipazione, non un’elemosina che lascia i poveri ai margini». «E va supportato con misure che garantiscano la possibilità di accedere, fra gli altri, ai servizi culturali” ha detto Tomaso Montanari (Libertà e Giustizia). Questo reddito riguarda anche gli studenti: «Per noi si declina in un reddito di formazione» sostiene Martina Carpani (Rete della Conoscenza). Per don Luigi Ciotti (Libera) «I poveri non chiedono elemosina ma dignità. La povertà è un reato contro la dignità delle persone. È un crimine di civiltà».
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