Dodici minuti: tanto ci mette il giudice monocratico della VIII sezione penale di Roma, Roberto Nespeca, a leggere il dispositivo della sentenza. Dopo otto ore di camera di consiglio, nell’aula bunker di Rebibbia viene pronunciata più e più volte la parola «condanna». Ed ha quasi dell’incredibile, perché per la prima volta viene riconosciuta la catena di comando che all’interno dell’Arma dei carabinieri per anni (oltre dieci, in questo caso) ha depistato e tentato di sotterrare le prove delle violenze inflitte ad un cittadino – Stefano Cucchi – mentre era nelle mani dello Stato. Dall’ultimo dei militari che falsificò il verbale sullo stato di salute del giovane ex tossicodipendente arrestato a Roma in una sera di ottobre del 2009, pestato e lasciato morire sette giorni dopo in una stanza dell’ospedale Pertini, fino al più alto in grado.

E ALLORA partiamo da lui: dal generale Alessandro Casarsa, allora comandante del Gruppo Roma, in seguito e fino a quando venne sostituito dal presidente Mattarella comandante dei Corazzieri del Quirinale, è stato condannato ieri in primo grado a 5 anni di carcere con l’interdizione perpetua dai pubblici uffici (l’accusa ne aveva chiesti 7).

In seconda linea ci sono il colonnello Francesco Cavallo, al tempo capufficio del Gruppo Roma, e il maggiore Luciano Soligo, ex comandante della compagnia Talenti Montesacro da cui dipendeva la caserma di Tor Sapienza nella cui camera di sicurezza Cucchi venne trattenuto dopo le botte: entrambi condannati a 4 anni (il pm ne chiedeva 5 anni e mezzo e 5 rispettivamente) con l’interdizione per cinque anni dai pubblici uffici. Un anno e nove mesi (per l’accusa bastavano 13 mesi) è la pena inflitta al luogotenente Massimiliano Colombo Labriola, nel 2009 comandante della stazione di Tor Sapienza, e anche al capitano Tiziano Testarmata (chiesta condanna a 4 anni), allora comandante della IV sezione del Nucleo investigativo che “investigò” su quella morte. Al colonnello Lorenzo Sabatino, ex capo del Reparto operativo della capitale, la condanna a un anno e 3 mesi (richiesti 3 anni).

Stessa pena inflitta al militare che era di turno alla caserma Tor Sapienza quella notte, Francesco Di Sano. E infine, 2 anni e 6 mesi al carabiniere Luca de Cianni che nel 2018 mise a verbale dichiarazioni false per screditare Riccardo Casamassima, il primo militare che ruppe l’omertà di corpo, e le ribadì nel 2019 durante un interrogatorio di polizia.

Tra i vari risarcimenti pecuniari stabiliti per le parti civili – tra le quali figurano anche la Presidenza del Consiglio, i ministeri della Giustizia e della Difesa e l’Arma dei carabinieri, difesi dall’avvocatura dello Stato – una parte della sentenza però ha colpito il Ministero della Difesa, condannato «in solido» per la diffamazione nei confronti degli agenti penitenziari che subirono il primo processo insieme ai medici del Pertini.

GLI OTTO IMPUTATI erano tutti presenti alla conclusione del processo ter nato grazie alla perseveranza del pm Giovanni Musarò che nel 2018 aprì un nuovo fascicolo di indagine per depistaggio proprio durante il processo bis, quando in seguito alla testimonianza chiave del carabiniere Francesco Tedesco iniziarono ad emergere prove dell’insabbiamento. La ricostruzione del pm antimafia è stata accolta sostanzialmente dal giudice, e gli otto militari sono stati giudicati colpevoli (in primo grado, il ricorso in Appello è scontato) a vario titolo di falso, favoreggiamento, omessa denuncia e calunnia. Una condanna così, sia pure per alcuni meno dura di quella richiesta, gli imputati non se l’aspettavano: facce scure, e qualcuno è scappato via per nascondere le lacrime.

Forse troppo fresca la sentenza definitiva emessa lunedì scorso per i due carabinieri responsabili dell’omicidio preterintenzionale di Cucchi, D’Alessandro e Di Bernardo. Anche se per la Cassazione andrà ripetuto l’Appello per il maresciallo Roberto Mandolini, comandante della stazione Appia dove venne portato il giovane dopo il pestaggio, e per il testimone pentito Francesco Tedesco. Un nuovo processo da celebrarsi prima che intervengano i termini di prescrizione, slittati da maggio a luglio per recuperare le interruzioni da Covid. Anche ieri l’Arma ha chiesto scusa alla famiglia.

ILARIA CUCCHI questa volta in Aula è senza madre e padre, invecchiati sotto il peso dei dieci processi. «Non credevo sarebbe mai arrivato questo giorno – dice – Anni e anni della nostra vita sono stati distrutti, ma oggi le persone che ne sono stata la causa, i responsabili, sono stati condannati». Interviene il suo avvocato, Fabio Anselmo: «È stato confermato che l’anima nera del caso Cucchi è il generale Casarsa. Chiunque avrà il coraggio di affermare che Stefano Cucchi aveva qualsiasi patologia, che era un tossicodipendente, che era anoressico o sieropositivo, commette un reato di diffamazione perché quelle relazioni di servizio, che hanno gettato tanto fango sulla famiglia Cucchi per 12 anni, e che hanno ucciso lentamente Rita Calore e Giovanni Cucchi, sentendosele ripetere sui giornali, ogni giorno, e hanno logorato la vita di Ilaria, sono false. Studiate a tavolino».