Decreto Caivano, il volto forte dello Stato debole
Diritti Meloni: «Lo Stato ci mette la faccia». Non lo fa però ricucendo il tessuto sociale e personale strappato, ma con il “daspo urbano” e con sanzioni collettive alle famiglie come in guerra
Diritti Meloni: «Lo Stato ci mette la faccia». Non lo fa però ricucendo il tessuto sociale e personale strappato, ma con il “daspo urbano” e con sanzioni collettive alle famiglie come in guerra
Periferia est di Palermo, Istituto Ics Sperone-Pertini. Dieci anni fa la dispersione scolastica era al 27%, oggi è all’1%. Risultato raggiunto grazie all’impegno di una dirigente scolastica, Antonella Di Bartolo, che ha lavorato per ricucire il legame motivazionale e materiale con le famiglie.
Presentandosi come una persona che si preoccupa di altre persone; scegliendo la strada difficile del dialogo e operando per la ricostruzione della fiducia nelle istituzioni e nel futuro, che anni di abbandono hanno logorato. Caivano, comune dell’area metropolitana nord di Napoli, teatro di stupri, sparatorie, bande giovanili e camorra: qui lo Stato – dichiara la Presidente Meloni – decide di «mettere faccia anche su materie che sono molto complesse e difficili da risolvere. A Caivano abbiamo preso impegni precisi dopo l’ennesimo fatto di cronaca, che in questo caso riguarda dei minori».
Non lo fa però potenziando i servizi educativi, rafforzano il legame fiduciario con lo Stato, intervenendo casa per casa su quell’abbandono che in molte periferie urbane ha reciso alla base il rapporto tra persone e istituzioni.
Lo fa con l’apparente forza del “daspo urbano” e prevedendo, come nelle guerre e nelle prigioni o in quelle che il sociologo canadese Erving Goffman chiamava «istituzioni totali», sanzioni collettive. Colpire le famiglie per il comportamento dei figli; fucilare gli abitanti del villaggio da cui provengono i partigiani nascosti nelle montagne; togliere l’ora d’aria a tutti i detenuti per qualche azioni commessa dai singoli. Un approccio diametralmente opposto.
A Palermo ci sono le persone e i ruoli pubblici che queste persone rivestono, punti di snodo cruciali dai quali passa la ricostruzione della fiducia istituzionale. Ci sono corpi nello spazio pubblico, rappresentanti dello Stato che discutono con le famiglie affacciate ai balconi o sul pianerottolo di casa. Nei cortili dei palazzoni o nei parchi senza più giochi. A Palermo ci sono gesti, sguardi, sorrisi e parole. C’è la natura relazionale della sfera pubblica, fatta di interazioni e legami.
A Caivano invece c’è un Decreto orribile applicato a un corpo informe di cittadini trattati come non-persone. C’è l’assenza dello Stato, la sua drammatica e sottaciuta ammissione di debolezza, accompagnata da esibizioni muscolari e dalle immancabili telecamere, con risultati che qualsiasi pattuglia in qualunque città potrebbe conseguire senza sforzo e clamore. Una dichiarazione di impotenza, non una prova di forza.
Uno Stato che non apprende e che non coglie l’innovazione spontanea nella pubblica amministrazione per renderla sistematica, intervenendo sulle competenze, rafforzando il personale allo stremo e migliorando le procedure organizzative. Uno Stato cieco, oltre che sordo.
Differenze, queste, che si colgono fin dal linguaggio utilizzato in riferimento all’intervento a Caivano: «Il territorio sarà bonificato e qui verranno tutti i ministri». La bonifica, come nelle paludi. La sfilata dei ministri, come nelle parate dove la sfera pubblica si riduce alla messa-in-scena dei ruoli istituzionali “alti”, senza mobilitare quelli che davvero servono e più vicini alle persone. L’idea, soprattutto, che i problemi si possano estirpare dai luoghi di vita come, appunto, nelle bonifiche delle paludi pontine, terre malsane da svuotare e liberare dalla malaria.
Dimenticandosi in questo modo che nei luoghi feriti dall’abbandono prolungato è necessaria prima di tutto un’opera di rammendo precisa e personalizzata, che aiuti le persone a ritrovare il senso del futuro, coinvolgendo la comunità locale in nome dello Stato, non in sua vece, per potenziare le capacità di ciascuno.
Con una chiamata di tutti a un’opera di sutura delle lacerazioni prodotte dalle disuguaglianze (ne scrivono Patrizia Luongo, Andrea Morniroli, Marco Rossi-Doria in “Rammendare. Il lavoro sociale ed educativo come leva per lo sviluppo”, Donzelli, 2022).
Un’opera che si faccia carico non solo delle persone ma anche della cura dei contesti in cui si interviene, per ricucire gli strappi degli ecosistemi locali e lavorare non solo per la risposta alle mancanze, evidenti e ormai strutturali, ma affinché le persone siano messe in grado di raggiungere obiettivi di “vita buona”.
Perché le periferie, a Napoli come a Torino, a Palermo come a Genova, non sono paludi da bonificare, ma luoghi di vita in enorme contrazione di futuro e debito di fiducia.
Luoghi che hanno bisogno di recuperare senso di appartenenza nei confronti di uno Stato debole, se non assente; luoghi desertificati da una programmazione urbanistica che si è “mangiata” lo spazio pubblico; luoghi che hanno bisogno di ritrovare la fiducia nella scuola attraverso quei rappresentanti dello Stato che – come Antonella Di Bartolo – mettono in gioco la loro presenza fisica per comprendere e rammendare un tessuto sociale come nessun Decreto Caivano potrà mai fare.
Twitter: @FilBarbera
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