È possibile separare anche il cielo quando l’ideologia lo impone, affermava ligia Christa Wolf nel suo romanzo, Il cielo diviso del 1963, apprezzato a Est come a Ovest per quella tessitura di blande critiche al socialismo e di anatemi contro il sistema capitalistico. Con la semplicità di una storia d’amore e senza troppa ideologia aveva narrato l’allontanamento di due amanti in una Berlino tormentata dalla insicurezza (e minacciata dal muro) affrontando così una questione che, dalla fine degli anni Cinquanta, coinvolgeva drammaticamente le due Germanie imponendo scelte, lacerazioni, impegno.

Qualche anno prima, una sua amica, Brigitte Reimann – nata a Burg nel 1933 e morta a Berlino nel 1973 –, scrittrice più inquieta e appassionata, senza tessera di partito, connivenze con la Stasi e costumi morigerati aveva progettato un romanzo su quello stesso tema iniziando nel 1960 la lenta stesura di un libro su «persone tormentate», Fratelli nel quale osava parlare di una Repubblica Democratica Tedesca povera e incerta e di cittadini in cerca di libertà e giustizia. In questo testo, la rottura non coinvolgeva come per Christa Wolf due amanti, ma una coppia di fratelli fusionali fin quasi all’incesto, che non si allontanano per una contrapposizione in fondo rozza tra visioni del mondo ma per il disaccordo su cosa pagare per rifondare la vita tedesca.  Le critiche sono vibranti e  la censura (meno occhiuta che negli anni successivi) si accanisce contro il romanzo: nel 1962 giungono alla autrice ampie proposte di modifica: «la scena con la Stasi cassata, la discussione sull’arte, cassata; cassato tutto ciò che riguarda i sentimenti o – horribile dictu! – il letto, e adesso la mia bella storia può tranquillamente essere esibita in ogni convitto femminile cattolico» commenta Reimann  e inizia un lungo braccio di ferro con la sua casa editrice e i recensori: «ora si picchia duro» afferma con decisione nel diario. Non si sa quanto l’autrice fosse poi costretta a modificare, ma di recente ritrovamento di parte della stesura originaria, conservato nel palazzo dove Reimann aveva abitato a Hoyerswerda, illumina questo confronto  creando nuovo interesse attorno a questa autrice ribelle e al suo romanzo (edito nuovamente in Germania per Aufbau nel 2023 per la cura di Angela Drescher e Nele Holdack, e  in Italia per Neri Pozza con la traduzione di Monica Pesetti, già autrice della versione per Voland, pp. 192, € 18,00).

La trama si ispira alla fuga del fratello Lutz che, nel 1960, aveva scelto l’Ovest. Brigitte Reimann ne era stata  profondamente turbata: «Per la prima volta – affermava – sento con dolore la tragedia delle nostre due Germanie. Le famiglie disgregate, la contrapposizione tra sorella e fratello. Che argomento letterario!». Elisabeth, la protagonista è, inoltre, una artista, coinvolta con entusiasmo  in un programma di integrazione operaia eppure costretta a fare i conti con un intollerabile controllo sulla sua vita e la sua espressività. Di fronte a lei, due uomini con caratteri e visioni contrastanti. Joachim, il fidanzato,  un ligio ma non ottuso uomo di partito, e Uli, il fratello che pur condividendo il progetto socialista, coglie i pericoli, le ingiustizie, l’ossessione carceraria del nuovo Stato. Lei si rispecchia in entrambe queste figure e mentre le lascia parlare, consapevole della fragilità dei suoi argomenti, emergono frammenti della sua esistenza in lotta contro il dispotismo di nuovi e vecchi poteri.

In questo  lunghissimo addio di parole,  frustrazioni e ideali si rivivono i sogni ma anche le cocenti  delusioni di un’ «Altra Germania» accettata nel dopoguerra anche dagli scrittori più ribelli come espiazione per un passato tedesco violento e incomprensibile. Una nazione che si era autoproclamata libera delle colpe del nazismo, aveva rivendicato con gesto tracotante l’eredità dei classici e si muoveva arcigna nell’ombra sovietica, evocando un «tramonto dell’occidente» già consumato nell’orrore.