Cultura

David Van Reybrouck, l’Indonesia e quelle radici anticoloniali della modernità

David Van Reybrouck, l’Indonesia e quelle radici anticoloniali della modernitàAlcuni dei leader dei paesi «non-allineati» presenti alla Conferenza di Bandung nel 1955. Da sinistra, Nehru, Nkrumah, Nasser, Sukarno e Tito

Salone di Torino Il giornalista presenta oggi al Lingotto «Revolusi», pubblicato da Feltrinelli, il suo affascinante reportage narrativo. Alle 13.15 in Sala Bianca. «Fu il primo paese a ottenere l’indipendenza e con la Conferenza di Bandung dei non-allineati attirò l’attenzione di figure quali Malcolm X, Martin Luther King e Nelson Mandela»

Pubblicato più di un anno faEdizione del 20 maggio 2023

Il lavoro che da anni conduce David Van Reybrouck sembra situarsi idealmente al confine tra il giornalismo e la narrativa, là dove il reportage assume i toni del racconto e personaggi e testimoni reali si stagliano nelle pagine come protagonisti di un romanzo. Sulla scorta dell’ampio successo internazionale di Congo (Feltrinelli, 2014), il giornalista belga propone ora Revolusi (Feltrinelli, pp. 616, euro 25) una vasta indagine su quelle che si possono definire come le «radici indonesiane» del mondo moderno o, più prosaicamente, sul modo in cui la globalizzazione ha preso forma anche nel vastissimo arcipelago asiatico.

Un libro costruito in anni di inchieste sul campo da un capo all’altro del mondo, attraverso centinaia di interviste e una documentazione straordinaria che Van Reybrouck presenta oggi al Salone di Torino (ore 13.15, Sala Bianca, con Junko Terao).

Il giornalista David Van Reybrouck

L’indagine che ha dedicato alla storia dell’Indonesia pone questo Paese all’origine del mondo moderno. Quali gli elementi su cui si fonda questa analisi?
Prima di tutto il fatto che si è trattato della prima realtà nazionale che ha proclamato la propria indipendenza all’indomani della Seconda guerra mondiale. Si era assistito ad uno sviluppo che andava in tale direzione anche in India e nelle Filippine, ma fu l’Indonesia a fare per prima questo passo già il 17 agosto del 1945, due giorni dopo la fine del conflitto nel Pacifico con la resa del Giappone. E dieci anni più tardi sarà sempre l’Indonesia ad indicare al resto del mondo come e perché attuare una vera decolonizzazione. Perciò credo si possa parlare di un vero e proprio «modello indonesiano» che è servito poi da ispirazione ad altri: l’idea che l’indipendenza arrivi presto, sia totale, vale a dire includendo tutte le responsabilità e il potere politico, e che riguardi la totalità dei territori già colonizzati facenti parte di un determinato Paese. L’eco di quanto avvenuto in Indonesia si è propagata a lungo in molte altre realtà.

Uno dei capitoli decisivi di questa vicenda fu poi la Conferenza di Bandung (1955) che pose l’Indonesia al centro della strategia dei «Paesi non-allineati». Attraverso le parole dell’intellettuale nero Richard Wright lei indica il peso che quell’evento ebbe non solo nelle ex colonie, ma anche nel cuore dell’Occidente.
Proprio quanto accadde a Bandung nel 1955 fu osservato con grande attenzione da figure quali Malcolm X, Martin Luther King e Nelson Mandela che espressero la propria ammirazione per quanto avveniva in Indonesia. Non a caso, dopo aver lungamente pensato che il movimento antirazzista e per i diritti civili sorti negli Stati Uniti in quegli stessi anni esprimessero una realtà prettamente americana, di recente gli storici stanno analizzando la pista dei fenomeni internazionali cui quei movimenti si ispirarono, primo fra tutti proprio il percorso verso la decolonizzazione seguito per prima dall’Indonesia e sviluppato in seguito a Bandung. Non tutti ricordando come dopo quella prima conferenza se ne sarebbe dovuta svolgere un’altra a New York, nella zona del Bronx. In seguito non se ne fece nulla, ma all’epoca tra gli attivisti afroamericani se ne discusse a lungo. Lo stesso gesto posto spesso all’origine della lotta per i diritti civili dei neri negli Usa, il rifiuto di Rosa Parks di cedere il posto su un autobus ad un bianco, dando così origine al boicottaggio dei bus a Montgomery, in Alabama, avvenne nel 1955, anche sulla scorta di quanto era emerso nella conferenza di Bandung. Era un movimento mondiale quello che aveva mosso i suoi primi passi in Indonesia.

Anche al di là del valore storico di tali avvenimenti, quanto accaduto in Indonesia nel passato non smette di interrogare il presente dell’Europa. Questa storia in apparenza lontana è molto più vicina a noi di quanto si possa credere?
Senza alcun dubbio. Inoltre si può notare come malgrado negli ultimi anni diversi Paesi coloniali abbiano fatto dei progressi nella direzione di una maggiore consapevolezza del proprio passato, tutto sembra restare sul piano nazionale: la Francia nei riguardi dell’Algeria, il Belgio con il Congo, la Gran Bretagna con l’India, l’Olanda con l’Indonesia e via dicendo. Sono spesso segnali importanti ma che non affrontano la questione al giusto livello: ritengo infatti che il colonialismo sia stato un fenomeno paneuropeo, così come la decolonizzazione ha assunto un profilo globale. Quanto alle ricadute sul presente dell’esperienza coloniale, credo non si limitino soltanto alle discriminazioni e al razzismo, ancora così presenti nelle nostre società, ma abbiano anche a che fare con i temi che dominano attualmente l’agenda internazionale. La scorsa estate, guardando una carta che indicava quali fossero i Paesi maggiormente responsabili dell’effetto serra e quelli che, invece, ne subiscono di più le conseguenze, ho avuto l’impressione di osservare una vecchia mappa dell’età del colonialismo europeo: sono in gran parte i Paesi ricchi del Nord del pianeta i più coinvolti nelle emissioni e le ex colonie dei Tropici e dell’Asia che ne pagano le conseguenze. Perciò, guardare a questo passato ci aiuta a comprendere anche le forme che assume quello che credo si possa ormai definire come il colonialismo del presente.

Già con «Congo» una decina di anni fa lei aveva contribuito a descrivere un intero mondo raccogliendo centinaia di voci e grazie al preciso timbro impresso al racconto. Un metodo affascinante che torna con «Revolusi» e che spinge a chiederle quale sia per lei il rapporto tra giornalismo e narrativa?
Credo che in entrambi i casi, per questi due libri, si possa parlare dell’incontro tra delle storie che si sviluppano sul lungo periodo, i tempi più serrati dell’inchiesta giornalistica e la volontà di rendere questo complesso insieme attraverso uno stile letterario attento e scrupoloso. Dal mio punto di vista è questo l’unico modo per rendere immediatamente comprensibili delle storie complesse, delle realtà spesso poco note e su cui non basta mettere insieme gli studi disponibili ma c’è la necessità stringente di dare la parola, per quanto possibile, ai protagonisti, al loro punto di vista e alle loro vite.

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