David Benassi, docente di sociologia economica alla Bicocca di Milano, e coautore di «La povertà in Italia» con Enrica Morlicchio e Chiara Saraceno (Il Mulino), che fine faranno tutti coloro che, tra i 18 e i 59 anni, «occupabili» o meno, perderanno il «reddito di cittadinanza» tra il 2023 e il 2024?

David Benassi (Università Bicocca, Milano)

Torneranno nell’area grigia in cui sono rimasti per decenni. Le loro vite sono state descritte in Sfrattati, un bellissimo libro dove Desmond Morris racconta la condizione di chi si barcamena tra lavoretti in nero, espedienti, spezzoni di reddito. Si vive in perenne emergenza nell’impossibilità di programmare alcunché, schiacciati dai bisogni quotidiani, senza mai uscire dalla condizioni di invisibilità. Al di là delle legittime valutazioni politiche, tutti gli operatori sostengono che se c’è qualcosa che il reddito di cittadinanza ha fatto, almeno per coloro che sono riusciti a prenderlo, è avere creato un orizzonte temporale più ampio della totale precarietà. E, aggiungo, ha iniziato a colmare un ritardo storico italiano. Misure simili sono state introdotte in Inghilterra alla fine degli anni Quaranta, a metà degli anni Cinquanta in Scandinavia, in Germania negli anni Sessanta.

Perché cercare di cambiare il criterio della «congruità» dell’offerta di lavoro, o tagliare di un mese la durata del «reddito» agli «occupabili», se a gennaio il governo farà una riforma organica? A cosa è dovuta questa impazienza?
A un tratto culturale persistente nella rappresentazione della povertà. I poveri meritano di essere poveri. E metterli al lavoro è considerata una soluzione unica e radicale al problema. Il non lavoro è vissuto come una colpa individuale. Ma questa è un’ipersemplificazione della realtà. Oggi il lavoro non basta. E noi siamo un paese con la più alta incidenza di lavoratori poveri, i working poor. Questa situazione si spiega con la frammentazione degli «in-work benefits», i benefici che integrano il reddito rispetto ai bisogni delle famiglie, in particolare quelle con minori o disabili, composte anche da cittadini stranieri. Sono loro i più poveri. Negli ultimi 20 anni gli anziani hanno visto diminuire il rischio povertà. Per queste ragioni chi concepisce la povertà come mancanza di volontà di lavorare distorce la realtà.

Il ministro dell’agricoltura Lollobrigida, parlando del «reddito», sostiene che non è accettabile che ci siano «persone che pretendono di avere un privilegio». Ma davvero avere un «reddito» è un privilegio? Dove nasce questa idea?
Negli ultimi 25 anni si è sempre affermata l’idea per cui si deve restituire qualcosa quando si ricevono prestazioni di Welfare che non sono considerati diritti, ma concessioni. Il linguaggio è quello della vecchia filantropia: ti aiuto, ma tu stai buono e non creare complicazioni, perché ti sto dando un’elemosina. Purtroppo questo approccio è diffuso in molte forze politiche come il cosiddetto «Terzo Polo». Il Pd è tendenzialmente silente. I Cinque Stelle difendono il «reddito» ma hanno polarizzato in termini strettamente partitici il confronto. Quando succede si può essere certi che le misure saranno stravolte. Il «reddito» non è stato considerato una politica alta che cerca una soluzione per i cittadini.

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Il sottosegretario al lavoro Durigon ha detto che un laureato che beneficia di un «reddito» dovrà accettare di fare anche «il cameriere». Sta dicendo che bisogna accettare qualsiasi lavoro a qualsiasi salario?
È l’idea che ispira la politica del governo. Io capisco le posizioni di Lega e Forza Italia che vogliono spostare le risorse su gruppi sociali con interessi differenti. Non capisco che interesse abbia Fratelli d’Italia a opporsi frontalmente a una misura diretta a ceti popolari delle grandi e piccole città del Centro-sud.

Esistono ristoratori, balneari o agricoltori disposti ad assumere un ultracinquantenne povero?
Mi sembra piuttosto difficile, a meno che non sia un lavoro in nero.

La presidente del consiglio Meloni promette di riformare le politiche attive entro luglio. Ma è possibile?
L’occupazione non si crea con uno schiocco di dita. È illusoria l’idea per cui nascerà magicamente da queste politiche. Meloni ripete quello che si dice da almeno 25 anni senza risultati. E ho qualche perplessità che nel giro di qualche mese riuscirà a risolvere il problema. Ci vorrebbero almeno 5 o 10 anni per iniziare a vedere qualche risultato. Fare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro non è banale. Non c’è una fabbrica che chiede un tornitore e tu glielo consegni bello e pronto.

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Perché non si accetta l’esistenza di un diritto al reddito?
È un problema storico. Manca la volontà politica di redistribuire la ricchezza. E proposte regressive come la Flat tax fino a 85 mila euro ne sono la conferma. Per quanto riguarda le singole misure non c’è mai stata una particolare simpatia per il reddito di cittadinanza, sia da parte delle forze cattoliche sia da quelle della sinistra e dei sindacati. Per le prime è importante la famiglia, per i secondi il lavoro dipendente. Il volontariato non ha fatto particolari pressioni almeno fino alla costituzione dell’Alleanza contro la povertà negli anni Dieci. Alla luce dell’esperienza degli ultimi anni è ormai necessario creare misure non categoriali, ma universali.