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Darsena di Porto Torres, i risarcimenti Eni per l’ospedale oncologico

Darsena di Porto Torres, i risarcimenti Eni per l’ospedale oncologicoLa «Darsena dei veleni» di Porto Torres

Petrolchimico Il Comitato azione, protezione e sostenibilità ambientale per il nord ovest della Sardegna (Capsa) a Todde e al governo: «Usate i fondi per la sanità locale»

Pubblicato 8 mesi faEdizione del 14 marzo 2024

Non capita spesso che una multinazionale, o dei suoi dirigenti, perdano in tribunale. Men che meno se quella multinazionale è Eni, o una delle sue controllate. Eppure a Porto Torres, nel processo per la cosiddetta «Darsena dei veleni», è successo. Tre ex dirigenti di Syndial, azienda parte del conglomerato Eni, sono stati ritenuti colpevoli in via definitiva di disastro ambientale colposo e deturpamento delle bellezze naturali. E ora gli attivisti hanno deciso di donare i risarcimenti ricevuti al reparto ematologia dell’ospedale di Sassari.

La storia è quella di un luogo di sacrificio, la città di Porto Torres, inserito in una regione da tempo sacrificata, la Sardegna. Porto Torres, ventimila abitanti nel nord-est dell’isola, ha legato il suo destino alla chimica pesante a partire dagli anni ‘60. Il grande impianto petrolchimico e l’indotto promettevano di risollevare la popolazione dalla povertà. La stagione industriale durò in realtà pochissimo, ma l’inquinamento è rimasto.

Tra i punti caldi della crisi ecologica locale c’è proprio la darsena. «Prima in quello specchio d’acqua c’erano attività. Operava un mastro d’ascia, una piccolissima azienda familiare che riparava imbarcazioni. Ad un certo punto nella darsena si formò una gigantesca polla di benzene, e l’area fu interdetta. Il mastro d’ascia dovette andarsene».

A parlare al manifesto è Paola Pilisio, portavoce del Comitato azione, protezione e sostenibilità ambientale per il nord ovest della Sardegna (Capsa). Il suo è uno dei gruppi che dall’inizio ha seguito la vicenda, e per questo è stato ammesso parte civile durante il dibattimento. «Nella darsena furono rilevati dalla stessa Syndial livelli di inquinanti migliaia di volte superiori ai limiti». Le cronache dell’epoca riportano dati impressionanti: 417mila volte oltre il consentito il livello di benzene, 3.300 volte il toluene, 226 volte l’etilbenzene. In gran parte sostanze cancerogene riconducibili alle attività industriali.

«Nel 2014 ci costituiamo parte civile, grazie anche al lavoro dell’avvocato Pina Zappetto» spiega ancora Pilisio. «In questi procedimenti il problema è risalire alle responsabilità individuali. Molti processi si fermano di fronte a questo ostacolo. Il nostro è stato un’eccezione». La Cassazione nel luglio dell’anno scorso ha riconosciuto colpevoli in via definitiva tre ex-manager Syndial, che oggi si chiama Eni Rewind. Si tratta della compagnia del gruppo di San Donato Milanese che si occupa di bonifiche. «L’accusa è stata proprio quella di non aver vigilato, non aver ripulito come dovevano».

I tempi della giustizia sono diversi da quelli della vita umana. Il processo ha richiesto quasi un decennio, e generazioni su generazioni hanno convissuto col degrado ambientale e sanitario sia prima sia durante. Anche per questo ora il Capsa ha deciso di devolvere il risarcimento ottenuto, diecimila euro, al reparto ematologia della locale azienda ospedaliera pubblica. «È un gesto piccolo, ma volevamo restituire alla comunità ciò che le è stato tolto. Il vero diritto che ci spetta è quello di non ammalarci, non di essere curati. Ma visto che il danno ormai è fatto, cerchiamo almeno di intervenire dove si può» dice Pilisio.

Il Capsa non è stato il solo a ottenere soldi a conclusione del processo. Oltre alle parti civili – comitati e singoli cittadini danneggiati – ci sono le istituzioni: duecentomila euro allo Stato, altri centomila a Regione e Comune. «È a loro che ci rivolgiamo: usate anche voi i fondi, almeno in parte, per aiutare la disastrata sanità locale. È il vero modo per ridare ai territori ciò che gli è stato tolto».

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