Dalla forma nuova del sindacato dipende la forza di un paese che lotta insieme, dal nord al sud
Documenti/inedito Intervento inedito recuperato un mese fa dall’Aamod, l’Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico. Ingrao interviene alla conferenza sul Mezzogiorno indetta dall'Flm di Trentin come risposta popolare e politica alla rivolta dei "boia chi molla" di Reggio Calabria
Documenti/inedito Intervento inedito recuperato un mese fa dall’Aamod, l’Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico. Ingrao interviene alla conferenza sul Mezzogiorno indetta dall'Flm di Trentin come risposta popolare e politica alla rivolta dei "boia chi molla" di Reggio Calabria
Nel 1970 il governo decide che il capoluogo della regione Calabria sarà Catanzaro. Questo fa scoppiare una rivolta guidata da un personaggio di estrema destra, legato ad ambienti mafiosi: Ciccio Franco, capo dei «Boia chi molla». La rivolta si trascina per molto tempo. L’Flm, Federazione lavoratori metalmeccanici, su proposta di Bruno Trentin, decide di convocare una manifestazione nazionale dei metalmeccanici a Reggio Calabria per il 22 ottobre 1972 e una Conferenza sul mezzogiorno per il 21 ottobre. Nel corso di questa conferenza parla Pietro Ingrao. Alla manifestazione aderiscono alcune categorie e la sola Cgil. I manifestanti arrivano con navi speciali, dalle isole e da Genova e con treni speciali da tutto il paese. 8 diversi attentati alle linee ferroviarie rallentano l’arrivo dei treni fino al pomeriggio del 22.La manifestazione è un grande successo, si calcola attorno alle 50mila persone. I comizi vanno avanti fino a pomeriggio inoltrato. Dopo la manifestazione la rivolta di Reggio si sgonfia, fino a cessare.
Questo intervento inedito è stato recuperato un mese fa dall’Aamod, l’Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico.
Salutiamo la decisione con cui i sindacati sono venuti in questa città per fare proprio qui, a Reggio Calabria, il discorso dell’unità da costruire con le grandi masse diseredate del Mezzogiorno.
Sappiamo che i sindacati hanno vissuto grandi esperienze in questi anni e hanno realizzato conquiste che sono state essenziali per tutti noi, per tutta la democrazia del nostro paese. Hanno riaffermato una presenza nella fabbrica, nella grande fabbrica moderna da cui li aveva ricacciati fuori la repressione padronale, hanno costruito per tutti strumenti nuovi di conoscenza, di lotta, di intervento, di potere che hanno accresciuto il patrimonio storico generale del nostro paese; hanno fatto crescere organismi originali di democrazia di base quali il nostro paese non aveva conosciuto.
Questo è il grande balzo che è stato realizzato nelle lotte degli anni Sessanta; ma a me sembra che il valore grande della Conferenza sta nel fatto che i sindacati vengono qui a dire che questo grande balzo raggiunto non basta, se non trova collegamento col Mezzogiorno. Sì, col Mezzogiorno, inteso non già come «oggetto» della lotta, ma come protagonista necessario: come compartecipe e costruttore della battaglia generale che deve essere combattuta per un nuovo tipo di sviluppo.
C’è una tradizione antica del movimento operaio e sindacale: ha operato sempre per collocare la lotta di fabbrica, la lotta di categoria, nel quadro più generale di una battaglia sociale per il progresso, per la libertà, per l’emancipazione dei lavoratori.
Ebbene oggi sembra a me che questo sindacato cerca la forma nuova che deve trovare questa tradizione. Esso, lo ricordavano tutta una serie di interventi, si trova di fronte a una linea con cui il blocco dominante, incapace di dare una risposta alla crisi che scuote il paese, ricorre non solo alla repressione, ma mira a spingere le masse sfruttate ciascuna nel proprio guscio, nella gabbia della categoria, del municipio, della clientela, nell’inganno della guerra tra i poveri e della corsa corporativa. E lo fa per frantumare le forze, per scavare un fossato tra la fabbrica di Torino e la città di Reggio, per rendere l’una e l’altra incapaci di cambiare l’assetto generale.
Perciò mi sembra di grande importanza per tutte le forze di progresso del nostro paese il fatto che questa Conferenza abbia respinto questa prospettiva, e venga a dire che il sindacato unitario vuole essere oggi non solo l’organizzazione di un numero limitato di occupati, ma un’organizzazione più vasta e complessa, che sappia costruire un’unità di popolo, una comunione di lotta fra lavoratori disoccupati e lavoratori occupati, tra Nord e Sud. E qui io trovo una differenza di fondo con tanti che vengono a Reggio e nel Mezzogiorno a ripetere vecchie cose. Il sindacato viene qui non a promettere regali impossibili o soluzioni miracolistiche, ma a rinnovare qualche cosa del suo modo di essere e dice apertamente che si vogliono superare limiti ed errori e che si vuole compiere una correzione, diciamolo pure, che si vuole portare avanti un’autocritica.
Io sento in questo il fatto di grande portata che sta dinanzi al Mezzogiorno con questa Conferenza. E capisco la rabbia di chi ha una paura folle che questo discorso arrivi alle masse. Usano il tritolo e la provocazione perché temono che questa proposta nuova del sindacato arrivi fra la povera gente del Mezzogiorno tra grandi masse e i diseredati.
Ma ecco allora il tema, ecco allora la domanda: come risponderanno le forze organizzate del Mezzogiorno? E non penso solo alle masse: penso anche alle forze del ceto medio meridionale, alla cultura meridionale, alle assemblee elettive, alle forze organizzate che qui si travagliano oggi con questa crisi profonda della società e si trovano di fronte al fallimento delle vecchie politiche che avevano promesso salvezza al Mezzogiorno.
Come risponderanno le forze politiche meridionali e nazionali a questa proposta nuova? Io sento che questo impegno del sindacato chiama anche i partiti a riflettere, a cambiare qualche cosa del loro modo di essere. E per parte nostra voglio dire subito che noi non pensiamo minimamente come comunisti di scaricare sulle spalle del sindacato solo il peso e la responsabilità, sia della riflessione autocritica sia della ricerca delle vie nuove da battere.
E vorrei essere chiaro: noi abbiamo sempre respinto, compagni lavoratori, la formula sommaria che ingloba tutti e tutto nel termine ambiguo e sbagliato di classe politica. Lo abbiamo fatto non già per sfuggire al discorso, ma perché questo concetto rischia di fare tutte le vacche nere nella notte: perché non porta a vedere le responsabilità e i passi in avanti da compiere. E così dico apertamente che non accetterei una visione che metta sullo stesso piano chi ha governato e chi è stato all’opposizione, chi è stato con Agnelli e con Pirelli e chi ha sfidato e ha pagato per la repressione di Agnelli e di Pirelli, chi ha difeso e difende ancora oggi la rendita fondiaria come accade con la scandalosa legge sui fitti agrari, e chi invece ha lottato qui e altrove in prima fila contro l’agrario per il mezzadro, per il colono, per il coltivatore diretto.
Ma contemporaneamente sento che il discorso contenuto in questa Conferenza chiama anche noi, chiama anche il mio partito, chiama anche i partiti operai e popolari, a far compiere un passo in avanti al loro rapporto con le masse. E in un senso molto preciso: il tipo di obiettivi che si presentano oggi al movimento operaio e popolare, le riforme per cui combattiamo, non consentono più una lotta di massa che si esprima solo come pressione, anche forte ma generica, per una mediazione politica che poi si svolge al vertice. No, tutta l’esperienza vissuta, sofferta in questi anni, ci dice che la rinascita del Mezzogiorno la conquista della piena occupazione, la valorizzazione delle risorse, la qualificazione del lavoro, potranno realizzarsi solo se muterà qualche cosa nella qualità del potere, nel modo con cui sono organizzate le masse, nell’organizzazione stessa dello Stato. Perciò noi comunisti non abbiamo mai creduto a incentivi o a provvidenze cadute dall’esterno e dall’alto, che lasciavano intatto il vecchio sistema di potere e anzi alimentavano la rete del sottogoverno.
Dobbiamo guardare in faccia la realtà. Certo, è fallito nel Mezzogiorno il sistema clientelare e notabilare più o meno rammodernato con le forme e con gli strumenti del capitalismo di Stato che ha fatto centro attorno al partito della Democrazia Cristiana; ma dobbiamo dirci che è fallito anche il dirigismo dei tecnocrati che restano dentro la vecchia macchina di potere, al di fuori e al di sopra delle masse e della lotta.
Questo vuol dire che abbiamo bisogno, nella pratica dei partiti operai e popolari, di liquidare completamente non solo le forme aperte ma anche quelle più sottili, di sovrapposizione dall’alto di soluzioni non vissute dalle masse e con le masse. Certo, la lotta riguarda lo Stato e perciò non ci può bastare lo spontaneismo: c’è bisogno di organizzazione, cosciente e capace di coordinarsi, ma non di organizzazione di apparati di notabili o anche di mediatori illuminati, bensì di organizzazione che faccia attive e presenti le masse. Che sappia affrontare il grande tema storico di come fare contare, pesare, decidere i grandi strati dispersi e poveri delle popolazioni meridionali; di come bisogna inventare le forme nuove e originali di questa partecipazione così come tutto quanto il movimento operaio e popolare italiano ha saputo costruire le forme originali nuove di presenza dentro la fabbrica, i consigli dei delegati, le assemblee di massa, la vita della democrazia di base.
Per questo noi forza politica operaia e popolare abbiamo bisogno del dialogo e del confronto con il sindacato. E qui lasciatemi ribadire: non ci interessano sindacati satelliti. Non ci interessa un sindacato subalterno a questo o a quel partito, incapace di far fronte al suo compito storico.
Ci interessa che cammini la costruzione autonoma di una grande organizzazione unitaria e che cammini nelle forme proprie che si è data, con le forme sue originali di democrazia di base. Ma proprio perché crediamo in una unità sindacale che non sia compromesso tra sindacati subalterni, proprio perché crediamo in un processo unitario che si fondi sulla partecipazione delle masse, proprio per questo riteniamo che questa crescita autonoma del sindacato non possa portare alla lontananza e al silenzio reciproco, ma debba portarci al dialogo e al confronto tra sindacati e forze politiche.
E qui voglio aggiungere un’ultima considerazione. Non credo, e lo dico francamente, ad una separazione delle parti, per cui i sindacati organizzano la lotta delle masse e all’ultimo, quando si presenta il momento degli sbocchi legislativi e parlamentari entrano in campo i partiti – quasi che le forze politiche fossero puri gestori dell’azione parlamentare e basta. Se si tratta di costruire queste forme nuove di potere democratico diffuso, che abbia questa continuità e questa forza penetrante, allora vuol dire anche che il confronto tra sindacati e forze politiche non può avvenire all’ultim’ora e al momento dello sbocco di vertice, ma deve avvenire già nel vivo della costruzione del movimento di lotta. Questa è la visione del dialogo che noi abbiamo: reciproca ricchezza nell’autonomia.
Perciò vi ringraziamo di averci invitato a partecipare a questa Conferenza. Le piattaforme vostre, le forme di lotta, la crescita di questo sindacato nuovo che cerca un grande contatto con le grandi masse di diseredati, li sentiamo come parte essenziale della nostra riflessione e della nostra ricerca, li sentiamo come qualcosa che ci aiuta, che ci chiama in discussione e ci sospinge a rafforzare il nostro impegno creativo nella battaglia comune per cambiare il volto del nostro paese.
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