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Dalla Carta nata dalla Resistenza allo Statuto albertino

Dalla Carta nata dalla Resistenza allo Statuto albertino

Referendum Se vince il sì alle riforme, alla camera siederanno deputati di nomina «regia», scelti dal governo e dai capipartito. E il nuovo senato non elettivo indebolirà i diritti sociali

Pubblicato quasi 8 anni faEdizione del 19 novembre 2016

In base alla superiorità della Camera «elettiva» e l’invenzione di un senato di nominati (camera di seconda mano) senza legittimazione territoriale diretta, come si attuano i diritti sociali che la Costituzione ha programmato nella prima parte e ha posto in gestione a istituzioni locali autonome, partiti e forme associative riconosciute nella seconda? Uno stravolgimento che determina la definitiva soluzione di continuità con l’attività legislativa costituzionalmente orientata e che a partire dagli anni ’60 aveva prodotto la legge sul divieto di licenziamento (legge 604/66); lo Statuto dei lavoratori (legge 300/700); la riforma delle Autonomie locali (legge 382/75); l’abolizione dei manicomi (legge 180/78); la riforma delle pensioni, la riforma sanitaria (legge 833/78). Tantissime le norme che condizioneranno in senso negativo il nostro sistema democratico, con dissimulazioni che talvolta appaiono come un vero e proprio raggiro.

Innanzitutto non è vero che si abolisce il bicameralismo: è vero altresì che il senato non è più elettivo. La ragione non emerge mai con chiarezza nei dibattiti: eppure è semplice: l’articolo 57 della Costituzione attuale afferma che i senatori sono eletti a suffragio universale su base regionale.

Questa norma impedisce una legge elettorale con un premio di maggioranza a livello nazionale. Ed è per questa ragione – di inconsistenza di rappresentanza – che Renzi è approdato alla decisione di abolire l’elezione diretta del senato, prevedendone invece la nomina da parte dei consigli regionali. Ogni funzione del senato sarà così di puro complemento alla dinamica partitico-politica in corso in quel momento, senza alcun collegamento con la rappresentanza diretta e l’autonomia dei territori.

Con questa riforma costituzionale i livelli essenziali (non minimi!) di assistenza (Lea), enucleati della riforma sanitaria e posti a presidio del diritto alla tutela universale della salute (art. 32 Cost.) non assurgono a criterio costituzionale e si riducono a una scaramuccia tra il governo centrale e regionale all’atto della finanziaria.

Fuorviante l’obiezione che elevarli a tale rango rischierebbe poi di limitarli, perché è noto che i Lea rappresentano la garanzia di uguaglianza su tutto il territorio nazionale, tanto che un domani di fronte a tentativi di tagli – come è già successo – costituirebbero una robusta difesa e un argine invalicabile sotto il quale non sarebbe possibile andare. E’ bene sapere che il vincolo del pareggio di bilancio in costituzione vuol dire, invece, che l’esercizio di diritti fondamentali dipenderà dalle risorse correnti disponibili, mentre l’individuazione delle prestazioni sanitarie e sociali essenziali verrà affidata semplicemente ad un provvedimento amministrativo di competenza del governo, con una funzione solo residua e caritativo-compensativa delle Regioni. Sanità a gogò e privatizzazioni quindi, come voleva Formigoni.

Con l’alibi della semplificazione, si affidano alla legislazione esclusiva dello stato, la produzione, il trasporto e la distribuzione nazionale della energia (materia finora concorrente), nonché le infrastrutture strategiche e grandi reti di trasporto e di navigazione. Anche il governo del territorio diventa di competenza esclusiva dello stato, così come la tutela e la sicurezza del lavoro (applicatelo alla TAV o alla discarica delle scorie, all’Ilva o a Seveso!).

Di fatto alle Regioni – a parte pochi residui – non spetterà la potestà legislativa sulla generalità delle materie: morte quindi all’alternativa di società fatta di «formazioni sociali» e di autonomie che sta scritta nella prima parte della Costituzione.

Ma c’è un’ultima osservazione che non ci deve sfuggire, la guerra. L’innovazione esplicita è che il senato, secondo l’articolo 78 della nuova Costituzione, viene escluso dal partecipare alla deliberazione della guerra e al conferimento al governo dei relativi poteri, in base a una gestione riservata al primo ministro e ai suoi deputati. E ciò è molto strano, perché il senato dovrebbe rappresentare le realtà territoriali (anche se in forme non dirette), dove ci sono le case e i corpi delle persone che più di tutti sarebbero colpiti dalla guerra.

Rendiamoci conto di un tremendo paradosso: rimane il bicameralismo, quello dello Statuto Albertino, ma con un rovesciamento. Con la riforma proposta, la camera dei deputati diventa lei la camera alta. Con l’Italicum in essa siederanno infatti dei deputati di nomina «regia», che cioè saranno nominati dall’alto, ovvero dal governo e dai capipartito, e sarà così assicurata la continuità del potere, e sotto l’ombrello dei minor costi della politica, si farà garante che tutto resti com’è.

Il senato, che si presentava come il punto forte della «riforma» rivela invece la sua funzionalità a colpire la democrazia sociale della Costituzione antifascista. Grazie a Renzi che ci sta dando tutto il tempo per compiacerci del No.

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